Cavalleria Cristiana

"È autentica Cavalleria Cristiana quella dei Cavalieri Erranti, nel duplice senso di andare ed errare, simili ai saggi e giusti di Dio, i quali si ritirano di tanto in tanto nella fortezza della Tradizione Interiore per dare la scalata alle vette dello Spirito" Primo Siena

giovedì 29 dicembre 2011

Salmo 129 - Canto delle salite

Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.

Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?

Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.

Io spero, Signore.
Spera l'anima mia,
attendo la sua parola.

L'anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all'aurora.

Più che le sentinelle l'aurora,
Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.

Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

domenica 18 dicembre 2011

«Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore» (Gc 5,7)

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Giovedì, 15 dicembre 2011 



«Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore» (Gc 5,7).
Con queste parole l’Apostolo Giacomo ci indica l’atteggiamento interiore per prepararci ad ascoltare e accogliere di nuovo l’annuncio della nascita del Redentore nella grotta di Betlemme, mistero ineffabile di luce, di amore e di grazia. A voi, cari universitari di Roma, che ho la gioia di incontrare in questo tradizionale appuntamento, rivolgo con affetto il mio saluto: vi accolgo in prossimità del Santo Natale, con i vostri desideri, le vostre attese, le vostre preoccupazioni; e saluto anche le comunità accademiche che voi rappresentate. Ringrazio il Magnifico Rettore, Prof. Massimo Egidi, per le cortesi parole che mi ha indirizzato a nome di tutti voi, e con le quali ha evidenziato la delicata missione del professore universitario. Saluto con viva cordialità il Ministro per l’Università, Prof. Francesco Profumo, e le autorità accademiche dei vari Atenei.
Cari amici, san Giacomo esorta ad imitare l’agricoltore, che «aspetta con costanza il prezioso frutto della terra» (Gc 5,7). A voi che vivete nel cuore dell’ambiente culturale e sociale del nostro tempo, che sperimentate le nuove e sempre più raffinate tecnologie, che siete protagonisti di un dinamismo storico che talvolta sembra travolgente, l’invito dell’Apostolo può sembrare anacronistico, quasi un invito ad uscire dalla storia, a non desiderare di vedere i frutti del vostro lavoro, della vostra ricerca. Ma è proprio così? L’invito all’attesa di Dio è proprio fuori tempo? E ancora più radicalmente potremmo chiederci: cosa significa per me il Natale; è davvero importante per la mia esistenza, per la costruzione della società? Sono molte, nella nostra epoca, le persone, specialmente quelle che voi incontrate nelle aule universitarie, che danno voce alla domanda se dobbiamo attendere qualcosa o qualcuno; se dobbiamo attendere un altro messia, un altro dio; se vale la pena di fidarci di quel Bambino che nella notte di Natale troveremo nella mangiatoia tra Maria e Giuseppe.
L’esortazione dell’Apostolo alla paziente costanza, che nel nostro tempo potrebbe lasciare un po’ perplessi, è in realtà la via per accogliere in profondità la questione di Dio, il senso che ha nella vita e nella storia, perché proprio nella pazienza, nella fedeltà e nella costanza della ricerca di Dio, dell’apertura a Lui, Egli rivela il suo Volto. Non abbiamo bisogno di un dio generico, indefinito, ma del Dio vivo e vero, che apra l’orizzonte del futuro dell’uomo ad una prospettiva di ferma e sicura speranza, una speranza ricca di eternità e che permetta di affrontare con coraggio il presente in tutti i suoi aspetti. Ma dovremmo chiederci allora: dove trova la mia ricerca il vero Volto di questo Dio? O meglio ancora: dove Dio stesso mi viene incontro mostrandomi il suo Volto, rivelandomi il suo mistero, entrando nella mia storia?
Cari amici, l’invito di san Giacomo «Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore» ci ricorda che la certezza della grande speranza del mondo ci è donata e che non siamo soli e non siamo noi da soli a costruire la storia. Dio non è lontano dall’uomo, ma si è chinato su di lui e si è fatto carne (Gv 1,14), perché l’uomo comprenda dove risiede il solido fondamento di tutto, il compimento delle sue aspirazioni più profonde: in Cristo (cfr Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 10). La pazienza è la virtù di coloro che si affidano a questa presenza nella storia, che non si lasciano vincere dalla tentazione di riporre tutta la speranza nell’immediato, in prospettive puramente orizzontali, in progetti tecnicamente perfetti, ma lontani dalla realtà più profonda, quella che dona la dignità più alta alla persona umana: la dimensione trascendente, l’essere creatura ad immagine e somiglianza di Dio, il portare nel cuore il desiderio di elevarsi a Lui.
C’è, però, un altro aspetto che vorrei sottolineare questa sera. San Giacomo ci ha detto: «Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza» (5,7). Dio, nell’incarnazione del Verbo, nell’incarnazione del suo Figlio, ha sperimentato il tempo dell’uomo, della sua crescita, del suo farsi nella storia. Quel Bambino è il segno della pazienza di Dio, che per primo è paziente, costante, fedele al suo amore verso di noi; Lui è il vero “agricoltore” della storia, che sa attendere. Quante volte gli uomini hanno tentato di costruire il mondo da soli, senza o contro Dio! Il risultato è segnato dal dramma di ideologie che, alla fine, si sono dimostrate contro l’uomo e la sua dignità profonda. La costanza paziente nella costruzione della storia, sia a livello personale che comunitario, non si identifica con la tradizionale virtù della prudenza, di cui certamente si ha bisogno, ma è qualcosa di più grande e più complesso. Essere costanti e pazienti significa imparare a costruire la storia insieme con Dio, perché solo edificando su di Lui e con Lui la costruzione è ben fondata, non strumentalizzata per fini ideologici, ma veramente degna dell’uomo.
Questa sera riaccendiamo, allora, in modo ancora più luminoso la speranza nei nostri cuori, perché la Parola di Dio ci ricorda che la venuta del Signore è vicina, anzi il Signore è con noi ed è possibile costruire con Lui. Nella grotta di Betlemme la solitudine dell’uomo è vinta, la nostra esistenza non è più abbandonata alle forze impersonali dei processi naturali e storici, la nostra casa può essere costruita sulla roccia: noi possiamo progettare la nostra storia, la storia dell’umanità non nell’utopia ma nella certezza che il Dio di Gesù Cristo è presente e ci accompagna.
Cari amici universitari, corriamo con gioia verso Betlemme, accogliamo tra le nostre braccia il Bambino che Maria e Giuseppe ci presenteranno. Ripartiamo da Lui e con Lui, affrontando tutte le difficoltà. A ciascuno di voi il Signore chiede di collaborare alla costruzione della città dell’uomo, coniugando in modo serio e appassionato fede e cultura. Per questo vi invito a cercare sempre, con paziente costanza, il vero Volto di Dio, aiutati dal cammino pastorale che vi viene proposto in questo anno accademico. Cercare il Volto di Dio è l’aspirazione profonda del nostro cuore ed è anche la risposta alla questione fondamentale che va emergendo sempre di nuovo anche nella società contemporanea. Voi, cari amici universitari, sapete che la Chiesa di Roma, con la guida saggia e premurosa del Cardinale Vicario e dei vostri Cappellani, vi è vicina. Ringraziamo il Signore perché, come è stato ricordato, vent’anni or sono, il beato Giovanni Paolo II istituì l’Ufficio di pastorale universitaria a servizio della comunità accademica romana. Il lavoro svolto ha promosso la nascita e lo sviluppo delle Cappellanie per giungere ad una rete ben organizzata, dove le proposte formative dei diversi Atenei, statali, privati, cattolici e pontifici possono contribuire all’elaborazione di una cultura al servizio della crescita integrale dell’uomo.
Al termine di questa Liturgia, l’Icona della Sedes Sapientiae sarà consegnata dalla delegazione universitaria spagnola a quella de «La Sapienza Università di Roma». Inizierà la peregrinatio mariana nelle Cappellanie, che accompagnerò con la preghiera. Sappiate che il Papa confida in voi e nella vostra testimonianza di fedeltà e di impegno apostolico.
Cari amici, questa sera affrettiamo insieme con fiducia il nostro cammino verso Betlemme, portando con noi le attese e le speranze dei nostri fratelli, perché tutti possano incontrare il Verbo della vita e affidarsi a Lui. E’ l’augurio che rivolgo alla comunità accademica romana: portate a tutti l’annuncio che il vero volto di Dio è nel Bambino di Betlemme, così vicino a ciascuno di noi che nessuno può sentirsi escluso, nessuno deve dubitare della possibilità dell’incontro, perché Lui è il Dio paziente e fedele, che sa attendere e rispettare la nostra libertà. A Lui questa sera vogliamo confessare con fiducia il desiderio più profondo del nostro cuore: «Io cerco il tuo volto, Signore; vieni, non tardare!». Amen.




domenica 4 dicembre 2011

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI -"DAL CIELO IN TERRA - AVVENTO E NATALE NELLE PREALPI BAVARESI"

[I]
Da noi, come è stato detto, l’Avvento è chiamato “tempo silenzioso” – “staade Zeit”. La natura fa una pausa; la terra è coperta dalla neve; non si può lavorare, nel mondo contadino, all’esterno; tutti sono necessariamente a casa. Il silenzio della casa diventa, per la fede, attesa del Signore, gioia della sua presenza. E così sono nate tutte queste melodie, tutte queste tradizioni che rendono un po’ – come è stato detto anche oggi – “il cielo presente sulla terra”. Tempo silenzioso, tempo di silenzio. Oggi l’Avvento è spesso proprio il contrario: tempo di una sfrenata attività, si compra, si vende, preparativi di Natale, dei grandi pranzi, eccetera. Così, anche da noi. Ma, come avete visto, le tradizioni popolari della fede non sono sparite, anzi, sono state rinnovate, approfondite, aggiornate. E così creano isole per l’anima, isole del silenzio, isole della fede, isole per il Signore, nel nostro tempo, e questo mi sembra molto importante. E dobbiamo dire grazie a tutti coloro che lo fanno: lo fanno nelle famiglie, nelle chiese, con gruppi più o meno professionali, ma tutti fanno lo stesso: rendere presente la realtà della fede nelle nostre case, nel nostro tempo. E speriamo che anche in futuro questa forza della fede, la sua visibilità, rimanga ed aiuti ad andare avanti, come vuole l’Avvento, verso il Signore.



[D]
Bei uns nennt man den Advent, wie bereits gesagt, die „Zeit der Stille“ – die “staade Zeit”. Die Natur hält inne; die Erde ist mit Schnee bedeckt; die Landwirte können draußen nicht mehr arbeiten; alle sind notwendigerweise zu Hause. Die häusliche Stille wird durch den Glauben zum Warten auf den Herrn, zur Freude über seine Gegenwart. Und so entstanden all diese Melodien, all diese Traditionen, die ein wenig – so wurde es auch eben gesagt – „den Himmel auf die Erde“ bringen. Die stille Zeit, die Zeit der Stille. Heute ist der Advent häufig gerade das Gegenteil: Zeit einer entfesselten Aktivität, man kauft, man verkauft, Vorbereitungen für Weihnachten, große Essen u.s.w. So ist es auch bei uns. Aber, wie ihr gesehen habt, sind die volkstümlichen Traditionen des Glaubens nicht verschwunden, vielmehr sind sie erneuert, vertieft, ins Heute geholt. Und so schaffen sie Inseln für die Seele, Inseln des Schweigens, Inseln des Glaubens, Inseln für den Herrn, in unserer Zeit, und das scheint mir sehr wichtig. Und wir müssen allen danken, die das tun: in den Familien, in den Kirchen, in den mehr oder weniger professionellen Gruppen; aber alle machen das gleiche: die Wirklichkeit des Glaubens in unseren Häusern, in unserer Zeit gegenwärtig machen. Und wir hoffen, daß auch in Zukunft diese Kraft des Glaubens, seine Sichtbarkeit bleibt und hilft, weiterzugehen, dem Herrn entgegen, wie es der Advent vorsieht.

martedì 22 novembre 2011

La Chiesa non compia l'errore di sostenere i banchieri

 di Martino Mora

La Chiesa cattolica ha storicamente  denunciato come pratica immorale e peccaminosa  l'”usura”, non intesa come oggi quale prestito ad interesse troppo elevato, ma  come prestito a qualsiasi interesse. Tralasciando le chiarissime condanne evangeliche e paoline dell'accumulo delle ricchezze, possiamo almeno soffermarci sulla più specifica condanna dell'usura e degli usurai, che non era affatto nuova anche nel mondo pagano, dove era quasi ovunque vietata per legge.
I Padri della Chiesa, a partire da Clemente Alessandrino e dagli apologisti, condannano fermamente la pratica del prestito ad interesse.  S. Ambrogio, S. Agostino, S. Girolamo, S. Basilio, S. Gregiorio Nisseno, S. Gregorio Nazianzeno e molto più tardi S. Tommaso d'Aquino (che la definì “torpitudo” riprendendo il giudizio aristotelico sulla “crematistica”): tutti o quasi i principali intelletti della Chiesa cattolica, e molti dei santi più grandi, denunciano come illecito e immorale qualsiasi prestito ad interesse. E questo basandosi principalmente sulla Scrittura, ma anche sul sostegno delle grandi opere della filosofia classica, da Platone ad Aristotele.
Dopo la prima condanna ufficiale del Concilio di Elvira (300-306), il  primo Concilio di Nicea (325) definisce illecita  l'usura, e la vieta ai religiosi.
San Leone I Magno (440-461), il papa passato alla leggenda per avere fermato Attila, definisce  l'usura come “la morte dell'anima”. E' proprio Leone Magno, nel 440, a vietare tale pratica anche ai laici, divieto confermato dal Concilio di Clichy (627).
Carlo Magno con il capitolare di Nimega (806) trasforma la proibizione morale della Chiesa. in legge dell'Impero. La pratica dell'usura viene tollerata solo per gli ebrei, che ne diventano protagonisti.
Dal XII secolo però, con l'espansione delle attività mercantili, la Chiesa sente il bisogno di riaffermare la condanna dell'usura in modo ancora più fermo.  Con Alessandro III (1159-1181) - il papa che sostiene i comuni della Lega Lombarda contro il Barbarossa, e che umilia Enrico III di Inghilterra dopo che questi  ha fatto uccidere il vescovo Tommaso Becket - la Chiesa commina, con il terzo Concilio del Laterano (1173), la scomunica e il divieto di sepoltura per chi presta ad interesse. Condanna ribadita dallo stesso pontefice con il canone “Ex eo de usuris”.

Il Concilio di Vienne (1311) stabilisce che deve essere considerato eretico anche chi afferma la non peccaminosità dell'usura. Siamo però in un periodo difficile per la Chiesa, costretta dai re di Francia alla “cattività avignonese”(1309-1377) e fortemente indebolita.
Proprio nel   XIV secolo, con l'ascesa ulteriore del ceto dei mercanti, l'usura diviene  un fenomeno talmente forte e diffuso da contribuire alla crisi della Chiesa, che viene, per così dire, lentamente espugnata dall'interno.
Già nella seconda metà del secolo, prima e durante  lo Scisma d'Occidente (1378-1417), i papi si esprimono raramente sull'immoralità dell'usura e dei grandi mercanti usurai, dai quali cominciano ad essere finanziati. E' in questo periodo che in Italia nascono le prime banche della storia, quali quelle dei Bardi e dei Peruzzi. Il pontificato di Bonifacio IX (1389-1404) già si caratterizza per  la ricerca di continui finanziamenti.
Dalla seconda metà del XV secolo, con Paolo II (1464-1471) inizia la lunga serie di papi mecenati dell'arte, spesso dissoluti e paganeggianti, tra i quali tutti ricordano i celeberrimi Alessandro VI Borgia e Giulio II della Rovere, al quale succede Leone X (1513-1521), al secolo Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Per la prima volta il rampollo di una famiglia di banchieri diventa papa.  I mercanti sono entrati nel tempio.
Il padre gli fa prendere i voti a sette anni e il papa lo fa cardinale a tredici. Divenuto papa, nel 1513, da figlio e nipote di banchieri non esita a fare mercato delle cose sacre, in particolare delle “indulgenze”, lettere di perdono che condonano parzialmente i peccati da scontare in Purgatorio.
Già il megalomane Sisto IV (1471-1484) aveva iniziato la vendita delle indulgenze, ma solo con Leone X  questo sistema raggiunge la più capillare estensione. Come ben sa chi conosce un po' di storia, questa scelta dissennata contribuisce a far scoppiare in Germania, per opera di Martin Lutero e dei principi che lo sostengono, la più grande rivolta contro l'autorità della Chiesa, che avendo successo sarà solo la prima delle divisioni nella cristianità occidentale.
Dopo la breve parentesi riformatrice di Adriano VI (1522-1523), viene eletto papa Clemente VII (1523-1534), al secolo Giulio de' Medici, cugino di Giovanni e figlio naturale di Giuliano, ucciso giovanissimo nella congiura dei Pazzi. Cresciuto con lo zio Lorenzo il Magnifico, divenuto papa si  comporta senz'altro meglio del  cugino. Ciò nonostante è anch'egli un papa piuttosto sfortunato, perché deve assistere allo scisma anglicano di Enrico VIII (Atto di Supremazia, 1534) e prima ancora al sacco di Roma (1527) ad opera dei lanzichenecchi dell'imperatore Carlo V. Si può quindi dire che i papi banchieri della famiglia Medici alla Chiesa non abbiamo portato fortuna, per usare un eufemismo.
Col Concilio di Trento (1545-1563) la Chiesa cattolica si riforma e ritrova se stessa. Il mondo moderno invece no, perché l'ascesa della classe borghese dei mercanti e dei banchieri continua trionfale, nonostante la Chiesa condanni ancora l'usura prima con Gregorio XIII (1572-1585), che scrive il “Decreto in risposta a Guglielmo duca di Baviera”, e poi con Benedetto XIV (1740-1758).  Nonostante la pressione di dotti settecenteschi come Scipione Maffei, che vorrebbero che la Chiesa si adeguasse ai protestanti nel riconoscere il ruolo positivo delle banche nello sviluppo capitalistico, Benedetto XIV ribadisce con la “Vix pervenit” (1745) la condanna morale per chi presta ad interesse.

A chi conosce un po' di  storia, fa quindi oggi una certa impressione osservare l'entusiasmo di gran parte del mondo cattolico per il governo di Mario Monti. L'esponente della Commissione Trilaterale e del Bildelberg club, nonché consulente di Goldmann-Sachs e di Coca Cola company, sembra essere riuscito dove Silvio Berlusconi, che fu iscritto alla ben più modesta Loggia massonica P2, aveva fallito: riunire quasi tutte le anime del mondo cattolico in un sostegno incondizionato alla propria persona.
Dai catto-comunisti delle Acli  e “Famiglia cristiana” ai berlusconiani di Comunione e Liberazione, dagli ex democristiani all'Azione Cattolica, passando per gli ex sessantottini di Sant'Egidio (premiati con un ministero ad Andrea Riccardi) è arrivato un convinto sostegno al governo Monti. Anche l'”Osservatore Romano” e il quotidiano dei vescovi italiani, “Avvenire”, si sono uniti, nel coro osannante Mario Monti, ai giornali del grande capitale (“Corriere della sera”, “La Repubblica”, “La Stampa”). Gli unici a scuotere il capo sono i fedeli più legati alla Tradizione, che però in televisione e sulla grande stampa non compaiono mai.
Il governo dei banchieri, imposto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale Europea, sembra quindi piacere, e molto, anche ai cattolici. Gerarchie comprese.

Al mondo cattolico sembrano quindi sfuggire alcuni aspetti essenziali, etici e politici insieme.
Mario Monti è un banchiere, seppure non in senso stretto. Non è cioè un capitalista della finanza, proprietario di una banca. E' un tecnico dell'economia che gestisce i capitali finanziari e che è strettamente legato ai  principali centri mondiali della finanza e delle multinazionali, anche quelli occulti, come testimoniano i suoi ruoli di dirigenza  nella Commissione Trilaterale e la sua presenza costante agli incontri del Bildelberg. E' un uomo del grande capitale, che senz'altro condivide il progetto di un unico governo mondiale dell'economia, il quale favorirebbe l'espansione totale, quasi dirigistica, del capitalismo dei consumi e del capitalismo finanziario a tutto il globo, cioè il  trionfo completo della globalizzazione.
Ciò renderebbe  più rapida  la tendenza alla massificazione completa dell'umanità, la distruzione sistematica di tutte le differenze, le tradizioni culturali e le identità collettive, l'omologazione dell'uomo in tutti i punti della terra, lo sradicamento da ogni appartenenza che non sia quella del denaro e della merce. Naturalmente si tratta di un piano folle, perché si bassa sull'implicita convinzione che vi possa essere una crescita infinita in un mondo finito, e questo, con buona pace del grande capitale e dei suoi servi stolti, non è possibile. Quando i cinesi e gli indiani consumeranno come gli occidentali di trenta anni or sono, la partita sarà finita. Ammesso che non finisca prima, data la crisi attuale del capitalismo.

Eppure oggi, dicevamo,  la gerarchia ecclesiastica si avvicina pericolosamente ai banchieri, come testimonia il sostegno al governo Monti. La storia sembra ripetersi, seppure su altre basi rispetto all'epoca del Rinascimento. Non sono stavolta il mecenatismo e la grandeur  dei papi a propiziare questo legame contro natura, ma  l'adesione all'idea di un unico centro di potere mondiale. L'utopia dello Stato mondiale sembra unire le aspirazioni dei banchieri e delle multinazionali a quelle della gerarchia ecclesiastica.
Giovanni XXIII è stato il primo pontefice a profilare la necessità e l'auspicabilità di un unico governo mondiale nell'enciclica “Pacem in terris”(1963). Vi affermava la la necessità di “un'autorità politica con competenze universali”, “in cui il potere, la costituzione e i mezzi d'azione abbiano essi stessi dimensioni mondiali, e che possa esercitare la sua azione su tutta la terra”. Nella stessa enclica Giovanni XXIII sposava l'ideologia dei diritti umani, fino ad allora contestata dalla Chiesa come individualista ed antropocentrica:
“Un atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata in assemblea generale il 10 dicembre 1948... Su qualche punto particolare della dichiarazione sono state sollevate obiezioni e fondate riserve. Non è dubbio però che il documento segni un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale”.
E' quindi per la sua tendenza al mondialismo che la “Dichiarazione dei diritti dell'uomo” viene accetta, seppure con qualche riserva. Su questi temi, Giovanni XXIII potrebbe essere stato influenzato dal suo amico francese Yves Marsaudon, affiliato  alla massoneria di rito scozzese e membro della Gran Loggia Nazionale di Francia. La massoneria ha infatti sempre sostenuto con forza l'ideologia dei diritti umani e dell'unificazione politica del mondo. Successivamente, Paolo VI si recò all'ONU il 4 ottobre 1965, per tornarvi nel 1978, pochi mesi prima della morte. Anche Giovanni Paolo II vi si recò due volte, nel 1979 e nel 1995; Benedetto XVI  nel 2008.
Si potrebbe discutere se l'ecumenismo spinto (cristiano e interreligioso)  di Giovanni Paolo II non abbia prefigurato, nel calderone ecumenico e nelle sue ricadute immigrazioniste, il progetto mondialista.  E però nella “Caritas in veritate” (2009) che l'idea dello Stato mondiale  viene espressa con altrettanta chiarezza e maggiore approfondimento che nell'enciclica giovannea del 1963. Scrive infatti Benedetto XVI :
“In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana ... così da dare forma di unità e pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio”.  E più avanti: “Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è già stata tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII... Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione a un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle nazioni Unite”.
Il celebre storico Yves Chiron vi ha constatato  la  scelta politica del mondialismo a causa di una “visione ottimistica ed evoluzionistica del futuro dell'umanità”. Pelagiana, potremmo tradurre in teologia. Anche il grande pensatore cattolico Thomas Molnar, pochi mesi prima di morire constatava amaro: “La Chiesa in questo momento si sta allineando al mondialismo”
Meno di un  mese fa, il Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, presieduto dal cardinale Renato Martino (noto alle cronache per aver proposto, qualche anno fa, l'istituzione dell'ora di religione islamica nella scuola italiana), ha ancora ripreso l'idea di un'unica autorità planetaria che possa regolare l'economia mondiale.  Mario Monti naturalmente, come il Bildelberg club e la Commisione Trilaterale di cui è dirigente, è su questa stessa linea. Negli ultimi anni è stato più  volte in Vaticano e  si è detto in sintonia con la “Caritas in veritate”, che ha definito “un documento guida  tecnico della società”.  Ha anche dichiarato: “Non vi è antitesi tra economia ed etica, anzi si basano su principi comuni, su uno stesso sistema di valori”. Agghiacciante. Qualche cardinale avrebbe fatto bene a ricordare  a Monti le parole di Cristo: “Nessuno può servire due padroni, o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire due padroni: a Dio e a Mammona.” (Lc16, 13).
Le verità del Vangelo sono aspre per il mondo, tanto più per un mondo dominato dalla merce e dal denaro, dal consumismo, dall'usura e dai mercati quale è il nostro. Più il cattolicesimo si “mondanizza e più difficile diventa ricordarle. Nessuno in compenso può ricordare una sola parola del “cattolico”  Mario Monti nei dieci anni  in cui è stato commissario europeo (1994-2004) sull' omosessualismo e l'abortismo sponsorizzati dalla UE. Anche questo strano cattolico praticante è un Ponzio Pilato alla Romano Prodi, il “cattolico adulto” che si è sempre svestito della sua fede ogni volta che presiedeva la Commissione europea? Del resto Monti e Prodi hanno diverse cose in comune: sono entrambi tecnici dell'economia, appartengono entrambi alla Commissione Trilaterale e  al cub Bildelberg, e sono entrambi consulenti di Goldmann-Sachs. Esattamente come il terzo tecnocrate italiano di rilevo internazionale, quel Mario Draghi che su indicazione del governo Berlusconi ora presiede la Banca Centrale Europea. Anche per Draghi le stesse amicizie e gli stessi legami internazionali: Commissione Trilaterale, Bildelberg, Goldmann-Sachs.
 Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa San Paolo, il  principale gruppo bancario del Paese,  ha lasciato la sua stanza dei bottoni alla Cà de sass  di Milano per scendere a Roma come ministro dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture. Ebbene, anche Passera, per il quale i giornali prevedono un brillante futuro politico, è un esponente del gruppo Bildelberg, come è attestato dalla  sua presenza alle riunioni degli ultimi anni.
E' evidente che per questi signori a contare è soltanto l'economia. Il loro regno è quello delle banche, delle Borse, dei mercati  e della agenzie di rating. Nel mondo che sognano (e che in parte si è già realizzato) non vi è posto per il cristianesimo, se non nel ruolo subalterno di assistenza sociale ai “perdenti” del sistema: barboni, tossicomani, handicappati, extracomunitari senza lavoro. Qualora la Chiesa ricominci a predicare contro Mammona, le verrà tolto il microfono.  La stessa cosa vale per la sinistra politica e gli intellettuali laicisti:  la Chiesa va bene se concepita come assistenza sociale e agenzia di collocamento dei più sfortunati, va ancora meglio se sponsorizza l'immigrazione, le moschee e i minareti, ma qualora dicesse cose non funzionali all'utopia Benetton del bazar multietnico e multicolor modello Sodoma, la vorrebbero ricacciare nelle catacombe. La Chiesa va bene, purché sia sempre culturalmente subalterna al mondo moderno. Cioè alla destra del denaro, e alla sinistra dell'individualismo assoluto e della pornocrazia egualitaria.
I cattolici non devono essere culturalmente subalterni, ma “il sale della terra”. Non si lascino sedurre dai  seguaci di Mammona e dell'usura. E' vero che Berlusconi ha  senz'altro dato il suo contributo alla scristianizzazione dell'Italia (che qualcuno ama chiamare “modernizzazione”) con la martellante proposizione, tramite le sue televisioni, di un' “american way of life”edonista e consumista, di un volgare americanismo senza America che dal 1980 in poi, con la nascita di Canale 5,  molto ha influito sullo stile di vita della gente comune. Eppure Monti, nonostante la lodevole sobrietà  e serietà di vita privata, può essere oggi più pericoloso del grande puttaniere (che  comunque, detto per inciso,  ha  ostacolato leggi contrarie all'etica, come i simil-matrimoni omosessuali).  E forse Monti può essere anche peggio  della sinistra nichilista, che pure lo appoggia.
Infatti Berlusconi è sempre rimasto escluso dai “salotti buoni” dell'economia e della finanza, e quando Gianni e Umberto Agnelli facevano parte del Bildelberg e della Commissione Trilaterale (nel silenzio assordante del servile giornalismo italiano), Berlusconi doveva accontentarsi della più modesta Loggia massonica P2. Gli Agnelli si consigliavano con Rockfeller e Kissinger, mentre Berlusconi doveva accontentarsi di Licio Gelli e Bettino Craxi. . La stessa cosa vale oggi con Monti, Draghi, Passera ed altri. Questi tecnici e manager  rispondono a degli interessi che vanno ben oltre quelli di un'azienda di proprietà come Mediaset. E tanto più vanno oltre a quelli di una sinistra italiana ed europea che è ormai completamente sottomessa alla Nato e al Fondo monetario internazionale (vero, presidente Napolitano?).
La Chiesa (intesa come gerarchia) rifiuti il mondialismo e ricordi la storia: dai papi del Rinascimento a  Calvi e Marcinkus, la vicinanza ai  banchieri le  porta male. Molto male. 

fonte: Arianna Editrice

venerdì 4 novembre 2011

La fede e le opere

Il 17 ottobre Papa Benedetto XVI ha pubblicato la lettera apostolica«Portafidei»conla quale indìce l’Anno della fede. La lettera parte dal dato di fatto che la fede è in crisi, non solo all’esterno ma perfino all’interno della Chiesa Cattolica. Per tornare alla fede, il Papa propone un percorso di nuova evangelizzazione e di conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Il Papa ricorda che fin dall’inizio del suo ministero come Successore di Pietro ha ribadito l’esigenza di riscoprire il cammino della fede. Infatti, «capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone». Le difficoltà per la Chiesa, afferma il Papa, vengono sia dal di dentro sia dal di fuori. E il risultato finale è una società senza fede. Ma questa situazione di scristianizzazione è qualcosa che «non si può accettare». Di qui il vasto programma della nuova evangelizzazione. E di qui l’indizione di un secondo “Anno della fede”, dopo quello indetto da Paolo VI nel 1967, per fare memoria del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo nel diciannovesimo centenario della loro testimonianza. Il Papa ha ritenuto di fare iniziare l’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. “Questa coincidenza è un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità dai Padri conciliari “non perdono il loro valore né il loro smalto”. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, era possibile riconoscere un tessuto che vengano conosciuti e assimilati come testi qualificati e normativi del Magistero, all’interno della Tradizione della Chiesa. Ai progressisti ricorda che non ha senso negare l’esistenza d’una grave crisi di fede anche all’interno della Chiesa, e fingere che tutto sia andato per il meglio dopo il Concilio. Agli anticonciliaristi – che vorrebbero rifiutare non solo il progressismo e l’interpretazione errata dei testi del Concilio, ma quegli stessi testi – il Papa ribadisce che i documenti del Vaticano II, letti «in maniera appropriata», costituiscono ancora oggi «una grande forza», «una grande grazia» e «una sicura bussola per orientarci». Il Pontefice indica anche il percorso che tutte le diocesi devono seguire. «Per accedere a una conoscenza sistematica dei contenuti della fede, tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica un sussidio prezioso ed indispensabile. Esso costituisce uno dei frutti più importanti del Concilio Vaticano II. Pertanto, l’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede». Naturalmente, precisa il Papa, la fede non dovrà mai essere opposta alle opere. Anzi, l’Anno della fede sarà anche un’occasione propizia per intensificare la testimonianza della carità. Non solo. Ma esso servirà anche a ricordare che, se è vero che la fede «senza la carità non porta frutto», non è meno vero che «la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio».

+ Ignazio Sanna

fonte: http://www.arborense.it/vescovo/la-fede-e-le-opere.html

martedì 1 novembre 2011

Ogni cristiano è chiamato a diventare santo

ANGELUS, 1 Novembre 2011


Cari fratelli e sorelle!
La Solennità di Tutti i Santi è occasione propizia per elevare lo sguardo dalle realtà terrene, scandite dal tempo, alla dimensione di Dio, la dimensione dell’eternità e della santità. La Liturgia ci ricorda oggi che la santità è l’originaria vocazione di ogni battezzato (cfr Lumen gentium, 40). Cristo infatti, che col Padre e con lo Spirito è il solo Santo (cfr Ap 15,4), ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla (cfr Ef 5,25-26). Per questa ragione tutti i membri del Popolo di Dio sono chiamati a diventare santi, secondo l’affermazione dell’apostolo Paolo: «Questa infatti è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). Siamo dunque invitati a guardare la Chiesa non nel suo aspetto solo temporale ed umano, segnato dalla fragilità, ma come Cristo l’ha voluta, cioè «comunione dei santi» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 946). Nel Credo professiamo la Chiesa «santa», santa in quanto è il Corpo di Cristo, è strumento di partecipazione ai santi Misteri - in primo luogo l’Eucaristia - e famiglia dei Santi, alla cui protezione veniamo affidati nel giorno del Battesimo. Oggi veneriamo proprio questa innumerevole comunità di Tutti i Santi, i quali, attraverso i loro differenti percorsi di vita, ci indicano diverse strade di santità, accomunate da un unico denominatore: seguire Cristo e conformarsi a Lui, fine ultimo della nostra vicenda umana. Tutti gli stati di vita, infatti, possono diventare, con l’azione della grazia e con l’impegno e la perseveranza di ciascuno, vie di santificazione.
La Commemorazione dei fedeli defunti, cui è dedicata la giornata di domani, 2 novembre, ci aiuta a ricordare i nostri cari che ci hanno lasciato, e tutte le anime in cammino verso la pienezza della vita, proprio nell’orizzonte della Chiesa celeste, a cui la Solennità di oggi ci ha elevato. Fin dai primi tempi della fede cristiana, la Chiesa terrena, riconoscendo la comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi. La nostra preghiera per i morti è quindi non solo utile ma necessaria, in quanto essa non solo li può aiutare, ma rende al contempo efficace la loro intercessione in nostro favore (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 958). Anche la visita ai cimiteri, mentre custodisce i legami di affetto con chi ci ha amato in questa vita, ci ricorda che tutti tendiamo verso un’altra vita, al di là della morte. Il pianto, dovuto al distacco terreno, non prevalga perciò sulla certezza della risurrezione, sulla speranza di giungere alla beatitudine dell’eternità, «momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità» (Spe salvi, 12). L’oggetto della nostra speranza infatti è il gioire alla presenza di Dio nell’eternità. Lo ha promesso Gesù ai suoi discepoli, dicendo: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,22).
Alla Vergine Maria, Regina di tutti i Santi, affidiamo il nostro pellegrinaggio verso la patria celeste, mentre invochiamo per i fratelli e le sorelle defunti la sua materna intercessione.
Benedetto XVI



martedì 25 ottobre 2011

«Serve un'autorità finanziaria mondiale»

 di Salvatore Mazza

Non c’è alternativa. Per la Santa Sede «la costituzione di un’Autorità pubblica mondiale, al servizio del bene comune» è oggi, nel pieno di una crisi di cui non si vede la fine, «l’unico orizzonte compatibile con le nuove realtà del nostro tempo». Nasce da qui la nota del pontificio consiglio Giustizia e Pace Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’Autorità pubblica a competenza universale, pubblicata ieri, con la quale si vuole offrire «un contributo ai responsabili della terra e a tutti gli uomini di buona volontà» di fronte a una situazione economica e finanziaria che «ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala». Perché, in gioco, c’è «il bene comune dell’umanità e il futuro stesso», quando oltre un miliardo di persone vivono con poco più di un dollaro al giorno, e sono «aumentate enormemente le disuguaglianze» nel mondo, «generando tensioni e imponenti movimenti migratori».

È un documento per molti versi impressionante, quello diffuso ieri dal Vaticano. Radicato nell’humus di ormai quasi mezzo secolo di magistero sociale – dalla Pacem in Terris in avanti – mette in evidenza la lucidità degli insistiti allarmi, ammonimenti, indicazioni che negli ultimi vent’anni papa Wojtyla e Benedetto XVI hanno continuato a sollevare circa i rischi di uno scollamento, in nome del profitto fine a se stesso, tra economia e finanza. Deriva preconizzata in innumerevoli occasioni, dal discorso di Giovanni Paolo II del maggio 1990 a Durango, davanti agli imprenditori messicani, a quello di papa Ratzinger al Reichstag, a Berlino, di appena un mese fa, passando attraverso Encicliche e tantissimi discorsi anche estemporanei (come quello di agosto, ancora di Benedetto XVI, sul volo per Madrid), che l’attuale crisi ha portato brutalmente in primo piano. E che oggi porta la Santa Sede a chiedere una «riforma del sistema finanziario e monetario internazionale», «una autorità pubblica universale» che governi la finanza, un «multilateralismo» non solo in diplomazia ma per «sviluppo sostenibile e pace», ammonendo sull’ultimo rischio alle porte: una generazione di «tecnocrati" che ignori il bene comune».

Documento per molti versi fuori dagli schemi soliti, a partire dalla indicazione di affidare a quella "autorità pubblica mondiale" una chiara «potestà di decidere con metodo democratico e sanzionare sulla base del diritto». In tal modo, ha spiegato presentando il documento il cardinale presidente del pontificio Consiglio Giustizia e Pace, Peter Kodwo Appiah Turkson, «l’autorità dovrà avere il fine specifico del bene comune e dovrà lavorare ed essere strutturata non come ulteriore leva di potestà dei più forti sui più deboli. In questo senso, essa dovrà svolgere quel ruolo super partes che, dal primato del diritto della persona, favorisca lo sviluppo integrale dell’intera comunità umana, intesa come "comunità delle nazioni"».

Da questo punto di vista, per il porporato, la nota è un contributo al «discernimento» che «può essere utile per le deliberazioni del G20», in programma in Francia il prossimo novembre, a Cannes. E, ha aggiunto il segretario del dicastero, monsignor Mario Toso, c’è un evidente auspicio per «un netto salto di qualità rispetto alle istituzioni e ai fora informali esistenti», per innovare «rispetto ad esse, all’Onu, alle fallimentari istituzioni di Bretton Woods, al G8 o al G20», il quale ultimo «è una soluzione ancora insoddisfacente e inadeguata», perché «non è parte dell’Onu ed è sempre un forum informale e limitato, che mostra di perdere efficacia più viene ampliato», e va quindi «superato», appunto, con l’istituzione di «un’autorità pubblica a competenza universale». E, ha detto ancora, «sì dà il caso che le nostre proposte appaiono in linea con quelle degli indignados, ma più che altro sono in linea con il precedente magistero».

«Se non si pone un rimedio», si legge nella nota, alle ingiustizie che affliggono il mondo, «gli effetti negativi che ne deriveranno sul piano sociale, politico ed economico saranno destinati a generare un clima di crescente ostilità e perfino di violenza, sino a minare le stesse basi delle istituzioni democratiche, anche di quelle ritenute più solide». Se le cause della crisi stanno in «un liberismo economico senza regole e senza controlli», e in tre ideologie dall’«effetto devastante» come l’utilitarismo, l’individualismo e la tecnocrazia, per arrivare a un mercato a servizio dell’etica bisogna recuperare il primato dell’etica e della politica sulla finanza. Da qui le proposte di «misure di tassazione delle transazioni finanziarie, mediante aliquote eque», e di «forme di ricapitalizzazione delle banche anche con fondi pubblici condizionando il sostegno a comportamenti "virtuosi" e finalizzati a sviluppare l’economia reale». La nota ipotizza anche «la riforma del sistema monetario internazionale» per dare vita «a qualche forma di controllo monetario globale».


fonte: http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/vaticana-autorit%C3%A0-finanziaria-mondiale.aspx

giovedì 20 ottobre 2011

Un altro uomo di Dio è stato ammazzato nella semi-indifferenza della società



La notizia che un altro prete cattolico è stato ammazzato quasi all’altro capo del mondo, nell’isola filippina di Mindanao, padre Fausto Tentorio da Lecco, non ha suscitato particolare impressione e anche la maniera in cui è scivolata sui mass-media, quasi per ottemperare a un dovere di cronaca e senza alcuna particolare commozione, rivela fino a che punto la secolarizzazione e la velata o dichiara irreligiosità del mondo moderno siano penetrati nel nostro modo di pensare, di sentire e perfino di indignarci.
Se fosse stato ammazzato un soldato israeliano, per esempio, ne avrebbe parlato il mondo intero; e così pure se fosse toccato a un banchiere newyorkese o a un esponente della cultura laicista e radicale oggi imperante.
Invece è toccata a un umile prete che, per approssimazione, si suole chiamare “missionario”, come se fosse andato laggiù per smania di convertire altre popolazioni; mentre tutto quello che stava facendo era di predicare il Dio dell’Amore alla locale comunità cattolica e, per il resto, impegnarsi per il riconoscimento dei diritti delle popolazioni tribali nel contesto dello Stato filippino, forse pestando i piedi a qualche signorotto locale o a qualche proprietario terriero.
Sta di fatto che un giovane con il casco calato sul viso lo ha freddato al termine della messa e poi se n’è andato in motocicletta, nel perfetto stile del killer professionista; e un’altra croce è andata ad aggiungersi a quella di tanti altri cristiani, sacerdoti e laici, i quali, specialmente negli ultimi anni, dall’uno all’altro capo del mondo, stanno spargendo il loro sangue sotto gli occhi indifferenti e quasi spazientiti dell’opinione pubblica mondiale.
Ora sono i copti in Egitto, che il governo dovrebbe difendere dalle violenze degli estremisti musulmani e che, invece, prende a fucilate nella piazza de Il Cairo; ora i cristiani di un villaggio dell’Orissa, che le autorità indiane dovrebbero del pari proteggere contro il fanatismo indù e che invece abbandonano al loro destino; ora un prete cattolico che in Turchia ha il torto di rappresentare una minuscola minoranza identificata con l’Arcinemico storico; ora un catechista brasiliano che ha infastidito qualche fazendeiro; e così via.
Dall’Iraq, dal Pakistan, dall’Egitto, centinaia di migliaia di cristiani sono in fuga, minacciati di rappresaglie e di sterminio a causa della loro fede; e nessuno se ne dà pensiero: nemmeno i nostri giornali e i nostri telegiornali che sono pronti, invece, a sollevare un immenso polverone se una donna iraniana riconosciuta colpevole dell’omicidio del marito viene condannata a morte, sino al punto di farne una specie di nuova santa e martire laica.
Ci siamo dimenticati che professare il cristianesimo è diventato non soltanto scomodo, ma anche altamente pericoloso in molte parti del mondo, così come lo era nell’antico Impero Romano durante le persecuzioni; oppure, semplicemente, preferiamo non vederlo e non saperlo; così come preferiamo non sapere che le più grandi persecuzioni anticristiane della storia non sono state quelle di Nerone o Diocleziano, ma quelle, assai più recenti e sistematiche, del Messico, dell’Unione Sovietica e della Cina comunista.
Infatti: se anche qualche prete viene ammazzato e qualche comunità cristiana messa in fuga, perché mai la nostra società materialista, figlia della cultura massonica e anticristiana del Secolo dei Lumi, se ne dovrebbe preoccupare? Al contrario, sotto sotto è cosa che non dispiace poi nemmeno tanto: così imparano, quegli ostinati e superati rappresentanti di una visione del mondo che non trova spazio nelle meraviglie della modernità, tutta scienza, tecnica e profitto.
Diciamo la verità: se mai è stato scomodo essere cristiani, oggi lo è diventato più che in qualunque altra epoca; se mai è stato pericoloso, oggi lo è in misura anche maggiore.
I massimi poteri mondiali - le banche, le multinazionali, i grandi speculatori finanziari, quei tre o quattro governi che contano davvero - non solo non hanno alcuna simpatia per il cristianesimo, ma lo vedono come il fumo negli occhi; come l’ultimo e più grosso ostacolo al loro disegno di dominio globale e di sfruttamento illimitato di uomini e cose.
Il cristianesimo rappresenta oggi una delle ultime voci che parli in favore della pace universale, contro la guerra, contro l’ingiustizia, contro la prepotenza dei ricchi a danno dei poveri. Sappiamo benissimo che non sempre i membri della Chiesa cattolica sono stati coerenti con questi principi, ma il punto, oggi, è un altro: a chi giova mettere a tacere questa voce di riconciliazione e di pace; a chi conviene soffocare questa testimonianza di amore e di perdono?
Per intanto, la cultura laicista, favorevole all’aborto, all’eutanasia, all’equiparazione di qualunque coppia di fatto, anche omosessuale, alla famiglia naturale, è riuscita a fare il vuoto intorno ai cristiani; al punto che, se pure ne vengono ammazzati un centinaio ora qua, ora là, magari bruciati vivi dentro una chiesa, come avviene talvolta in India, nessuno fa una piega, nessuno protesta, nessuno pone interrogativi politicamente scorretti.
Chiunque può parlare, tranne i cristiani; e il papa Ratzinger, pur essendo un teologo insigne, non ha il diritto di tenere nemmeno una lezione in quella università di Roma che furono i suoi predecessori a fondare (precisamente, Bonifacio VIII); non è forse Ratzinger l’erede diretto di quel potere infame che ridusse al silenzio Galilei, il padre della scienza moderna? E dunque, taccia.
Questo silenzio, questo isolamento, questo cordone sanitario psicologico e culturale che la società laicista e secolarizzata ha eretto intorno al cristianesimo, sono la premessa per l’inizio della fase finale: l’eliminazione fisica dei cristiani. I cristiani danno fastidio e debbono scomparire: rappresentano un esempio troppo pericoloso di predicatori di pace, in un mondo che ha bisogno di alimentare i fantasmi dell’odio per continuare a sfruttare la miseria, per continuare a scatenare guerre che rendono lauti guadagni alle industrie di morte, e per diffondere ovunque stili di vita materialisti, brutali, antiecologici, basati sulla pura forza e sull’edonismo esasperato.
Del resto, Gesù lo aveva predetto ai suoi discepoli, in una delle pagine più suggestive e più drammatiche tramandateci dal Vangelo (Giovanni, XV, 18-27; e XVI, 1-4):

«Se il mondo vi odia, pensate che prima di voi ha odiato me. Se voi apparteneste al mondo, il mondo vi amerebbe come suoi. Invece voi non appartenete al mondo, perché io vi ho scelti e vi ho strappati al potere del mondo. Perciò il mondo vi odia. Ricordate quello che vi ho detto: un servo non è più importante del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi;  se hanno messo in pratica la mia parola, metteranno in pratica anche la vostra.  Vi tratteranno così per causa mia, perché non conoscono il Padre che mi ha mandato. Se io non fossi venuto in mezzo a loro a insegnare, non avrebbero colpa. Ora invece non hanno nessuna scusa per il loro peccato. Chi odia me, ossia anche il Padre mio. Se non avessi fatto opere che nessun altro ha fatto, non avrebbero colpa. Invece le hanno vedute, eppure hanno odiato me e il Padre mio. Così si realizza quello che sta scritto nella loro legge: “Mi hanno odiato senza motivo”.
Quando verrà l’avvocato che io vi manderò da parte del Padre mio - lo Spirito della verità che proviene dal padre - egli sarà il mio testimone, e anche voi lo sarete, perché siete stati con me dal principio.
Vi ho detto questo perché ciò che vi capiterà non turbi la vostra fede. Sareste espulsi dalle sinagoghe, anzi verrà un momento in cui vi uccideranno pensando di fare cosa gradita a Dio. Faranno questo perché non hanno conosciuto né il Padre né me.  Ma io ve l’ho detto perché, quando verrà il momento dei persecutori, vi ricordiate che io ve ne avevo parlato. Non ne ho parlato fin dal principio, perché ero con voi.»

Del resto, perché meravigliarsi?
La storia del cristianesimo è piena di martiri, e non solo quella dei primi tre secoli.
In Giappone, fra XVI e XVII secolo, i cristiani venivano crocifissi e la loro religione ufficialmente proibita, tanto da doverla professare in segreto: ed erano una comunità di ben 300.000 persone, anche nel Vietnam il cristianesimo rimase fuori legge fino alla prima metà del 1800.
Quante persone di media cultura, per esempio, sanno che la storia del Canada e di quelli che sarebbe poi diventato lo Stato di New York, è letteralmente costellata dal sangue dei martiri cristiani?
Ricordiamo qualche nome: Gabriele Lalemant, Antonio Daniel, Carlo Garnier, Natale Chabanel, Isacco Jogues, Renato Goupil, Giovanni de La Lande; e sono solamente  alcuni. Non si tratta di missionari europei che si erano recati in quelle regioni per collaborare allo sfruttamento degli indigeni da parte dei bianchi; al contrario: si trovarono nel mezzo delle guerre fra Uroni e Irochesi; cercarono di metter pace: vennero travolti anch’essi nella tragedia sanguinosa degli Uroni, che avevano in gran parte convertiti al cristianesimo.
E quante persone sanno che un missionario originario di Lecco, Giovanni Mazzucconi, è stato il primo martire del P. I. M.E. (Pontificio Istituto Missioni Estere) in Oceania, a soli ventinove anni, trucidato dagli indigeni dell’isola di Woodlark, nell’odierno Papua-Nuova Guinea, nel 1855 e proclamato poi beato da Giovanni Paolo II?
La sua breve vita è così interessante, che ci riserviamo di tornarvi sopra in apposita sede; una sola cosa diciamo di lui, per adesso: che è stato quanto di più lontano si possa immaginare dal cliché del missionario cattolico testardo, fanatico, sprezzante delle culture indigene, che una certa Vulgata massonica e protestante ha diffuso a un punto tale che, in molti, alla parola “missionario” scatta quasi un riflesso condizionato di sospetto, diffidenza, antipatia.
Oppure che dire dei martiri della Cina? Ci sentiremmo di scommettere che alla stragrande maggioranza del pubblico italiano i loro nomi non dicono nulla.
Ne citiamo solo alcuni: Alberico Crescitelli, di Avellino, martirizzato nel 1900, durante la rivolta dei Boxer; Cesare Mencattini, aretino, colpito da pallottole dum-dum, nel 1941, a trentun anni; Antonio Barosi, cremonese, strangolato nel 1941, a quarant’anni; Mario Zanardi, sempre cremonese, anch’egli strangolato nel 1941, a trentasette anni e dopo quattordici di missione; Bruno Zanella, vicentino, strangolato e gettato in un pozzo con altri due padri, Mons. Barosi e P. Zanardi; Gerolamo Lazzaroni, bergamasco, gettato vivo in un pozzo, ancora nel 1941, a ventisette anni; Carlo Osnaghi, milanese, sepolto vivo nel 1942, a quarantatre anni; Emilio Teruzzi, milanese, trucidato e gettato in mare nel 1942, a cinquantacinque anni; e, più recentemente, Valeriano Fraccaro, trevigiano, partito per le missioni cinesi nel 1937 e ucciso nel 1974, nel clima della Grande Rivoluzione culturale.
E poi ci sono i martiri della Birmania, anche’essi, probabilmente, ignoti al grande pubblico, a quei nipotini di Voltaire che si fanno beffe della parola “martire” e che pensano, magari, che quei benedetti preti sono proprio andati a cercarsela: non potevano starsene a casa loro, invece di andare in capo al mondo con la croce di Cristo?
Ed ecco Mario Vergara, napoletano, fucilato e gettato in un fiume della Birmania, nel 1950, a quarant’anni; Pietro Galastri, aretino, anch’egli trucidato nel 1950; analogo destino per Alfredo Cremonesi, di Cremona, colpito da raffiche di mitra nel 1953; Pietro Manghisi, barese, ucciso nel 1953, a cinquantaquattro anni; Eliodoro Farronato, vicentino, fucilato nel 1955 da guerriglieri sbandati, dopo venti anni di missione, all’età di quarantatre anni.
L’elenco potrebbe continuare, il numero di questi martiri è legione.
Ecco, ad esempio, Angelo Maggioni, nato a Trezzo d’Adda nel 1917 e missionario in Asia dal 1948, assassinato il 14 agosto da una banda di uomini armati nel Bangladesh.
Ed ecco suor Gina Simionato, nata a Quinto di Treviso nel 1945, missionaria in Africa dal 1975 per un quarto di secolo, uccisa nell’ottobre del 2002 in Burundi.
E che dire del vescovo di San Salvador Oscar Romero, assassinato dagli squadroni della morte in piena messa, il 21 giugno 1970, per essersi fatto interprete del grido dei poveri?
Sì: sono anche questa nostra ignoranza, questa nostra indifferenza, questo nostro distacco, che lasciano più soli ed esposti i cristiani davanti alle persecuzioni dei nostri giorni.

Fonte: http://ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=40731

domenica 16 ottobre 2011

"Indignados", la Quarta Rivoluzione








di Massimo Introvigne

14-10-2011















Domani, sabato 15 ottobre, si svolge la giornata internazionale di mobilitazione degli "indignaods", e la manifestazione di Roma sarà il suo fulcro in Italia.
Ma chi sono gli "indignados" che scendono in piazza in Spagna, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Italia e la cui protesta sembra inarrestabile? Il nome viene da un libretto pubblicato nel 2010 in Francia da un piccolo editore (Indigène éditions di Montpellier) che si è trasformato in successo mondiale, Indignez-vous ! (Pour une insurrection pacifique) - trad. it., Indignatevi!, Add editore, Torino 2011 -, del vecchio (novantatré anni) ex militante della Resistenza francese, ambasciatore e uomo politico Stéphane Hessel. Questo nuovo "libretto rosso" di una rivoluzione fai da te è ampiamente sopravvalutato. Hessel attacca quella che in Italia siamo abituati a chiamare la "casta" - politici, industriali, Chiesa - ma i suoi critici fanno notare che ne ha sempre fatto parte. E il suo legame politico con Dominique Strauss-Kahn è diventato fonte d'imbarazzo dopo gli incidenti a sfondo sessuale che hanno coinvolto l'ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale.
Il contenuto, poi, è di una povertà desolante. Un critico davvero insospettabile, il giornalista del quotidiano di sinistra Libération Pierre Marcelle, ha chiamato Hessel «il Babbo Natale delle buone coscienze». Le trenta paginette che si vorrebbero anticonformiste di Indignatevi! sono in realtà un inno al più vieto conformismo politicamente corretto, e lasciano l'impressione che per superare la crisi in atto non ci sia bisogno di fare sacrifici. Basterebbe che i cattivi che si sono impadroniti della politica e dell'economia siano sostituiti da "buoni" dalle caratteristiche molto vaghe: leali, generosi, un po' antiamericani e anti-israeliani, fedeli ai "valori della Resistenza" - ci mancherebbe altro - e capaci di emozionarsi per i "nuovi diritti" rivendicati dalle femministe e dagli omosessuali.
I primi "indignados" - di qui il nome spagnolo - si sono manifestati il 15 maggio 2011 a Madrid. Come ha fatto notare il teologo spagnolo don Javier Prades-López a un convegno organizzato dal cardinale Angelo Scola a Venezia, gli "indignados" se la sono presa per prima cosa con la Chiesa e hanno finito pr contestare il Papa e la Giornata Mondiale della Gioventù. Questa è un'importante differenza sia con i vecchi no global, che non erano certo filocattolici ma che non avevano la Chiesa tra gli obiettivi principali, sia con le folle delle "primavere arabe", che anzi in parte, contestando dittature "laiche", chiedevano più e non meno religione.
L'aspetto anticattolico sottolineato da Prades-López e l'insistenza sui "nuovi diritti" non vanno in alcun modo sottovalutati. Ma ugualmente importante è la rivolta contro la politica in genere, contro la "casta" e l'idea che la crisi economica derivi da colpe individuali di singoli esponenti del mondo politico e finanziario, così che gli "indignados" non vogliono in nessun modo pagarne il costo. A Roma si è sentito rivendicare un «diritto all'insolvenza», a non pagare i debiti. A Londra si sono visti giovani sfasciare vetrine chiedendo non il pane - come in Tunisia -, ma il diritto al cellulare ultimo modello o all'abito di marca. A Parigi gli slogan contro tutti i partiti e gli inviti ad astenersi dal voto elettorale hanno turbato lo stesso Hessel, che ha sempre fatto politica di partito e che forse ora si è accorto di avere aperto un vaso di Pandora.
Ma per capire gli «indignados» non bastano gli analisti politici. Ci serve una teologia della storia. Papa Benedetto XVI ha parlato questo mese in Calabria della «mutazione antropologica» di una generazione che vive nella realtà virtuale di Internet e degli smartphone e rischia di perdere il contatto con il mondo reale. Il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), nel suo grande affresco della scristianizzazione dell'Occidente, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (cfr. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario, a cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009), vedeva la Rivoluzione, con la "R" maiuscola, come un processo di progressiva distruzione dei legami sociali che avevano fatto dell'Occidente cristiano quello che era. Prima i legami religiosi, con la rottura con Roma del protestantesimo; poi i legami politici organici fondati sulla ricchezza dei corpi intermedi, sostituiti da un freddo rapporto fra il cittadino e lo Stato moderno, con la Rivoluzione francese; infine i legami economici, con il comunismo e l'assorbimento di tutta la vita economica nello Stato. Più tardi, Corrêa de Oliveira aggiunse alle prime tre fasi quella che chiamava Quarta Rivoluzione, che aveva il suo momento emblematico nel 1968 e non attaccava più legami macrosociali, ma microsociali - la famiglia, il legame fra madre e figlio con l'aborto - e perfino i legami dell'uomo con se stesso con la droga, l'ideologia di genere, l'eutanasia.
Il 1968 era tutto questo, ma la Terza Rivoluzione - quella comunista - era ancora così forte da riuscire largamente a recuperarlo. I no global - in parte professionisti del disordine, in parte nostalgici di forme arcaiche di marxismo - rappresentano la transizione fra un movimentismo di Terza e uno di Quarta Rivoluzione. Gli "indignados" sembrano essere insieme la causa e l'effetto di una Quarta Rivoluzione che ha portato alle estreme conseguenze lo spappolamento del corpo sociale, la solitudine di tutti da tutti, e contro tutti, il rifiuto di ogni responsabilità - ben simboleggiato dalla rivendicazione del diritto a non pagare i debiti e dagli insulti al Papa, in quanto richiama all'esistenza di doveri -, la mancanza assoluta di prospettive e, in fondo, anche di speranza. Ci volevano oltre quarant'anni di Quarta Rivoluzione perché le piazze potessero riempirsi di "indignados".
Si tratta di movimenti che sono stati sempre manipolati e riassorbiti da qualche demagogo politico. Avverrà anche questa volta? Si è candidato Beppe Grillo, che si è affrettato ad accorrere anche a Madrid ai primi segni di vita degli "indignados". E abbiamo visto emergere partiti paradossali, del nulla, intitolati alla pirateria informatica o, com'è appena avvenuto in Polonia, a una collezione raffazzonata di «nuovi diritti» tenuti insieme dall'anticlericalismo. Questi partiti non vincono le elezioni, ma è già inquietante che ottengano seggi ed entrino nei parlamenti.
Quanto ai politici tradizionali - compresi quelli di sinistra - sperano talora di sfruttare gli "indignados" ma ne ricavano principalmente uova marce.  L'incomprensione, e le uova marce, spiegano perché la politica non solo non sia in grado di rispondere alle poche rivendicazioni sensate degli "indignados" - che sono di carattere economico immediato, ovvero denunciano lo scandalo reale di classi dirigenti che chiedono sacrifici cui non sono disponibili a partecipare di persona -, ma anche perché, intimidita, non sia neppure in grado di garantire l'ordine pubblico come dovrebbe fare quando le proteste degenerano in intollerabili violenze.
La presenza degli "indignados" dà ragione a Benedetto XVI: siamo di fronte a un degrado antropologico che spesso inizia con il manifestarsi come ostilità alla Chiesa e al cristianesimo. È certo necessaria una risposta di ordine pubblico alle frange violente, che non si lasci intimidire da nessuna retorica buonista. Ma affrontare seriamente il problema degli "indignados" significa operare con pazienza per ricostituire i legami sociali e personali spezzati da una lunga Rivoluzione. Per gli uomini e le donne di buona volontà - lo ha detto il Papa al Parlamento Federale tedesco - questo si chiama ritorno al diritto naturale, all'idea che esistono doveri e non solo diritti, a una chiara nozione del bene e del male. Per i cattolici, si chiama nuova evangelizzazione.

venerdì 23 settembre 2011

Crisi euro, l'ombra della guerra.

di Alberto Tundo
 
Il ministro delle Finanze polacco ha evocato il rischio di un ritorno dei conflitti sul continente nel caso in cui la moneta comune venisse affondata
In queste settimane di borse in altalena e panico generalizzato, di parole sulla crisi che sta scuotendo l'area euro se ne sono spese tante ma quelle del ministro delle Finanze polacco Jacek Rostowski hanno fatto molto rumore. Rostowski, parlando a Strasburgo mercoledì 14 settembre, davanti ai membri del parlamento europeo, ha riferito una conversazione avuta con "un vecchio amico che ora dirige una grossa banca", nel corso della quale il banchiere avrebbe commentato la crisi dell'eurozona dicendo: "Guarda, dopo tutti questi shock politici ed economici, è davvero difficile che riusciremo ad evitare una guerra". Probabilmente, Rostowski stava parlando di un qualche pezzo grosso della svizzera Ubs, dal cui quartier generale il 6 settembre era uscito un dossier intitolato Euro Break Up: the Consequences, firmato dagli analisti Stephane Deo, Paul Donovan e Larry Hathaway. Un documento snello, appena 21 pagine, che dimostra che per risolvere la crisi dell'euro non ci sono scorciatoie, che tutti i discorsi sull'espulsione di un membro sull'orlo del crack o la defezione di uno stato che volesse sfuggire alla crisi non hanno senso.
Lo studio sviluppa parallelamente due ipotesi: la prima, che ad uscire dall'euro, consensualmente o per espulsione, sia un Paese piccolo, per peso economico e popolazione, come la Grecia o il Portogallo; la seconda, che al contrario "attraversi la linea del Rubicone" un peso massimo, come la Germania, per ragioni contrarie. Gli analisti calcolano che al primo l'uscita dall'euro costerebbe una cifra compresa tra il 40 e il 50 per cento del Pil soltanto nel primo anno; ogni cittadino dello stato in questione pagherebbe tra i 9500 e gli 11500 euro nei primi 12 mesi, e tra i tremila e i quattromila euro negli anni seguenti. Anche il secondo, però, pagherebbe un conto piuttosto salato per sbarazzarsi degli stati zavorra: tra un 20 e un 25 per cento del Pil nel primo anno, tra i sei e gli ottomila euro a cittadino, e tra i tremila e i 4500 in quelli seguenti. Se invece le economie più forti si accollassero il 50 per cento del debito complessivo di Grecia, Irlanda e Portogallo, i tedeschi pagherebbero mille euro circa, una volta sola. Suicidare l'euro - perché questo comporterebbe l'uscita di un membro, non importa quanto grande - non è conveniente.
Se l'area euro perdesse un membro, l'Europa tutta pagherebbe un costo politico enorme, sia per quanto riguarda le ripercussioni sull'intero progetto europeo, il funzionamento delle sue istituzioni che il peso nell'arena internazionale. Ma altrettanto spaventosi sono gli effetti economici in senso stretto. Cinque, quelli principali. Il primo è il default del debito sovrano, che comporta una situazione di insolvibilità. Il Paese si troverebbe ad avere un debito nominato in una valuta estera ma senza potere raccogliere quella moneta con le tasse. Dovrebbe quindi aumentare le esportazioni verso l'area euro per incassare più valuta pesante o, in alternativa, dovrebbe ricorrere ad una conversione forzosa del debito, il che costituirebbe agli occhi di molti investitori internazionali una prova di default. Gi analisti prendono anche in considerazione la probabilità che possa seguire anche un "corporate default" ma passano subito a considerare il secondo problema, quello del fallimento del sistema bancario nazionale, un meccanismo di trasmissione perfetto della crisi, a causa del panico che si diffonderebbe. Verosimilmente, molti cittadini ritirerebbero depositi e risparmi in euro prima della conversione nell'Nnc e li porterebbero all'estero o in caso di chiusura delle frontiere li seppellirebbero in giardino, come accadde con la fine dell'Unione monetaria degli Stati Uniti nel 1932-33. Il terzo e il quarto costo riguardano la rottura con l'Unione – dal momento che, spiegano gli analisti, uscire dall'Euro significa andare contro lo spirito dei Trattati ed equivale a essere fuori dall'Ue – e il ripristino di tariffe e barriere e un ritorno al protezionismo, scontato nel caso in cui la nuova moneta, soprattutto nel caso di un Paese piccolo, si deprezzasse considerevolmente e l'Unione reagisse proteggendo i propri mercati con l'imposiizone di tariffe sulla merce proveniente dallo stato uscente.
In questo scenario, il rischio di svolte autoritarie, disordine civile e guerra diventa estremamente reale. "La fine delle unione monetarie storicamente si è quasi sempre accompagnato a guerre civile e rivolte", si legge a pagina 10. Nel 1993, quando Repubblica Ceca e Slovacchia si separarono, si arrivò alla chiusura delle frontiere, al controllo dei movimenti di capitali e a un limite sui prelievi. In Slovacchia in particolare per alcuni anni si assistette alla restrizione dei diritti politici e delle libertà civili. Anche il collasso dell'Unione Sovietica fu seguito dalla nascita di alcuni stati autoritari, ma milizie, sommosse e pistole spuntarono anche dopo il fallimento dell'Unione monetaria degli Stati Uniti nel 1932. Con l'uscita di un Paese dall'area euro, grande o piccolo non importa, il costo della membership per quelli rimanenti aumenterebbe e s'innesterebbe una spinta centrifuga. Ma il crollo dell'euro comporterebbe la fine dell'Ue e avrebbe dimensioni e ripercussioni inimmaginabili, dal momento che l'Ue oscilla tra il primo e il secondo posto per peso economico nel mondo. "I costi economici dello scioglimento dell'euro sono molto alti ed estremamente dannosi. Quelli politici sono talmente grandi da non essere quantificabili in soldi", concludono gli analisti. La fine dell'euro è un'ipotesi da non accarezzare troppo.

fonte: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=40226

domenica 11 settembre 2011

Questa parola è dura!

CELEBRAZIONE EUCARISTICA
A CONCLUSIONE DEL XXV CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE ITALIANO
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Cantiere Navale di Ancona
Domenica, 11 settembre 2011 

Carissimi fratelli e sorelle!
Sei anni fa, il primo viaggio apostolico in Italia del mio pontificato mi condusse a Bari, per il 24° Congresso Eucaristico Nazionale. Oggi sono venuto a concludere solennemente il 25°, qui ad Ancona. Ringrazio il Signore per questi intensi momenti ecclesiali che rafforzano il nostro amore all’Eucaristia e ci vedono uniti attorno all’Eucaristia! Bari e Ancona, due città affacciate sul mare Adriatico; due città ricche di storia e di vita cristiana; due città aperte all’Oriente, alla sua cultura e alla sua spiritualità; due città che i temi dei Congressi Eucaristici hanno contribuito ad avvicinare: a Bari abbiamo fatto memoria di come “senza la Domenica non possiamo vivere”; oggi il nostro ritrovarci è all’insegna dell’“Eucaristia per la vita quotidiana”.
Prima di offrivi qualche pensiero, vorrei ringraziarvi per questa vostra corale partecipazione: in voi abbraccio spiritualmente tutta la Chiesa che è in Italia. Rivolgo un saluto riconoscente al Presidente della Conferenza Episcopale, Cardinale Angelo Bagnasco, per le cordiali parole che mi ha rivolto anche a nome di tutti voi; al mio Legato a questo Congresso, Cardinale Giovanni Battista Re; all’Arcivescovo di Ancona-Osimo, Mons. Edoardo Menichelli, ai Vescovi della Metropolìa, delle Marche e a quelli convenuti numerosi da ogni parte del Paese. Insieme con loro, saluto i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, e i fedeli laici, fra i quali vedo molte famiglie e molti giovani. La mia gratitudine va anche alle Autorità civili e militari e a quanti, a vario titolo, hanno contribuito al buon esito di questo evento.
“Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Davanti al discorso di Gesù sul pane della vita, nella Sinagoga di Cafarnao, la reazione dei discepoli, molti dei quali abbandonarono Gesù, non è molto lontana dalle nostre resistenze davanti al dono totale che Egli fa di se stesso. Perché accogliere veramente questo dono vuol dire perdere se stessi, lasciarsi coinvolgere e trasformare, fino a vivere di Lui, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda Lettura: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8).
“Questa parola è dura!”; è dura perché spesso confondiamo la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà. E’ questa un’illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura e portando, paradossalmente, a rimpiangere le catene del passato: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto…” – dicevano gli ebrei nel deserto (Es 16,3), come abbiamo ascoltato. In realtà, solo nell’apertura a Dio, nell’accoglienza del suo dono, diventiamo veramente liberi, liberi dalla schiavitù del peccato che sfigura il volto dell’uomo e capaci di servire al vero bene dei fratelli.
“Questa parola è dura!”; è dura perché l’uomo cade spesso nell’illusione di poter “trasformare le pietre in pane”. Dopo aver messo da parte Dio, o averlo tollerato come una scelta privata che non deve interferire con la vita pubblica, certe ideologie hanno puntato a organizzare la società con la forza del potere e dell’economia. La storia ci dimostra, drammaticamente, come l’obiettivo di assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione si sia risolto in un dare agli uomini pietre al posto del pane. Il pane, cari fratelli e sorelle, è “frutto del lavoro dell’uomo”, e in questa verità è racchiusa tutta la responsabilità affidata alle nostre mani e alla nostra ingegnosità; ma il pane è anche, e prima ancora, “frutto della terra”, che riceve dall’alto sole e pioggia: è dono da chiedere, che ci toglie ogni superbia e ci fa invocare con la fiducia degli umili: “Padre (…), dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11).
L’uomo è incapace di darsi la vita da se stesso, egli si comprende solo a partire da Dio: è la relazione con Lui a dare consistenza alla nostra umanità e a rendere buona e giusta la nostra vita. Nel Padre nostro chiediamo che sia santificato il Suo nome, che venga il Suo regno, che si compia la Sua volontà. E’ anzitutto il primato di Dio che dobbiamo recuperare nel nostro mondo e nella nostra vita, perché è questo primato a permetterci di ritrovare la verità di ciò che siamo, ed è nel conoscere e seguire la volontà di Dio che troviamo il nostro vero bene. Dare tempo e spazio a Dio, perché sia il centro vitale della nostra esistenza.
Da dove partire, come dalla sorgente, per recuperare e riaffermare il primato di Dio? Dall’Eucaristia: qui Dio si fa così vicino da farsi nostro cibo, qui Egli si fa forza nel cammino spesso difficile, qui si fa presenza amica che trasforma. Già la Legge data per mezzo di Mosè veniva considerata come “pane del cielo”, grazie al quale Israele divenne il popolo di Dio, ma in Gesù la parola ultima e definitiva di Dio si fa carne, ci viene incontro come Persona. Egli, Parola eterna, è la vera manna, è il pane della vita (cfr Gv 6,32-35) e compiere le opere di Dio è credere in Lui (cfr Gv 6,28-29). Nell’Ultima Cena Gesù riassume tutta la sua esistenza in un gesto che si inscrive nella grande benedizione pasquale a Dio, gesto che Egli vive da Figlio come rendimento di grazie al Padre per il suo immenso amore. Gesù spezza il pane e lo condivide, ma con una profondità nuova, perché Egli dona se stesso. Prende il calice e lo condivide perché tutti ne possano bere, ma con questo gesto Egli dona la “nuova alleanza nel suo sangue”, dona se stesso. Gesù anticipa l’atto di amore supremo, in obbedienza alla volontà del Padre: il sacrificio della Croce. La vita gli sarà tolta sulla Croce, ma già ora Egli la offre da se stesso. Così la morte di Cristo non è ridotta ad un’esecuzione violenta, ma è trasformata da Lui in un libero atto d’amore, in un atto di auto-donazione, che attraversa vittoriosamente la stessa morte e ribadisce la bontà della creazione uscita dalle mani di Dio, umiliata dal peccato e finalmente redenta. Questo immenso dono è a noi accessibile nel Sacramento dell’Eucaristia: Dio si dona a noi, per aprire la nostra esistenza a Lui, per coinvolgerla nel mistero di amore della Croce, per renderla partecipe del mistero eterno da cui proveniamo e per anticipare la nuova condizione della vita piena in Dio, in attesa della quale viviamo.
Ma che cosa comporta per la nostra vita quotidiana questo partire dall’Eucaristia per riaffermare il primato di Dio? La comunione eucaristica, cari amici, ci strappa dal nostro individualismo, ci comunica lo spirito del Cristo morto e risorto, ci conforma a Lui; ci unisce intimamente ai fratelli in quel mistero di comunione che è la Chiesa, dove l’unico Pane fa dei molti un solo corpo (cfr 1 Cor 10,17), realizzando la preghiera della comunità cristiana delle origini riportata nel libro della Didaché: “Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa sola, così la tua Chiesa dai confini della terra venga radunata nel tuo Regno” (IX, 4). L’Eucaristia sostiene e trasforma l’intera vita quotidiana. Come ricordavo nella mia prima Enciclica, “nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri”, per cui “un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata” (Deus caritas est, 14).
La bimillenaria storia della Chiesa è costellata di santi e sante, la cui esistenza è segno eloquente di come proprio dalla comunione con il Signore, dall’Eucaristia nasca una nuova e intensa assunzione di responsabilità a tutti i livelli della vita comunitaria, nasca quindi uno sviluppo sociale positivo, che ha al centro la persona, specie quella povera, malata o disagiata. Nutrirsi di Cristo è la via per non restare estranei o indifferenti alle sorti dei fratelli, ma entrare nella stessa logica di amore e di dono del sacrificio della Croce; chi sa inginocchiarsi davanti all’Eucaristia, chi riceve il corpo del Signore non può non essere attento, nella trama ordinaria dei giorni, alle situazioni indegne dell’uomo, e sa piegarsi in prima persona sul bisognoso, sa spezzare il proprio pane con l’affamato, condividere l’acqua con l’assetato, rivestire chi è nudo, visitare l’ammalato e il carcerato (cfr Mt 25,34-36). In ogni persona saprà vedere quello stesso Signore che non ha esitato a dare tutto se stesso per noi e per la nostra salvezza. Una spiritualità eucaristica, allora, è vero antidoto all’individualismo e all’egoismo che spesso caratterizzano la vita quotidiana, porta alla riscoperta della gratuità, della centralità delle relazioni, a partire dalla famiglia, con particolare attenzione a lenire le ferite di quelle disgregate. Una spiritualità eucaristica è anima di una comunità ecclesiale che supera divisioni e contrapposizioni e valorizza le diversità di carismi e ministeri ponendoli a servizio dell’unità della Chiesa, della sua vitalità e della sua missione. Una spiritualità eucaristica è via per restituire dignità ai giorni dell’uomo e quindi al suo lavoro, nella ricerca della sua conciliazione con i tempi della festa e della famiglia e nell’impegno a superare l’incertezza del precariato e il problema della disoccupazione. Una spiritualità eucaristica ci aiuterà anche ad accostare le diverse forme di fragilità umana consapevoli che esse non offuscano il valore della persona, ma richiedono prossimità, accoglienza e aiuto. Dal Pane della vita trarrà vigore una rinnovata capacità educativa, attenta a testimoniare i valori fondamentali dell’esistenza, del sapere, del patrimonio spirituale e culturale; la sua vitalità ci farà abitare la città degli uomini con la disponibilità a spenderci nell’orizzonte del bene comune per la costruzione di una società più equa e fraterna.
Cari amici, ripartiamo da questa terra marchigiana con la forza dell’Eucaristia in una costante osmosi tra il mistero che celebriamo e gli ambiti del nostro quotidiano. Non c’è nulla di autenticamente umano che non trovi nell’Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza: la vita quotidiana diventi dunque luogo del culto spirituale, per vivere in tutte le circostanze il primato di Dio, all’interno del rapporto con Cristo e come offerta al Padre (cfr Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 71). Sì, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4): noi viviamo dell’obbedienza a questa parola, che è pane vivo, fino a consegnarci, come Pietro, con l’intelligenza dell’amore: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69).
Come la Vergine Maria, diventiamo anche noi “grembo” disponibile ad offrire Gesù all’uomo del nostro tempo, risvegliando il desiderio profondo di quella salvezza che viene soltanto da Lui. Buon cammino, con Cristo Pane di vita, a tutta la Chiesa che è in Italia!
Amen.