Cavalleria Cristiana

"È autentica Cavalleria Cristiana quella dei Cavalieri Erranti, nel duplice senso di andare ed errare, simili ai saggi e giusti di Dio, i quali si ritirano di tanto in tanto nella fortezza della Tradizione Interiore per dare la scalata alle vette dello Spirito" Primo Siena

domenica 27 marzo 2011

Il terrorismo laicista contro Roberto De Mattei

Roberto De Mattei parla su Radio Maria del senso escatologico del sisma in Giappone. Una petizione online chiede le sue dimissioni. Il filosofo della scienza Stefano Moriggi: "Le sue idee incompatibili con la carica che ricopre".
“Le grandi catastrofi sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio” e “sono talora esigenza della sua giustizia della quale sono giusti castighi”. Monsignor Orazio Mazzella, arcivescovo di Rossano Calabro lo scriveva all’indomani del terremoto di Messina del 1908. 
Il 16 marzo scorso, infatti, nel corso della tramissione ‘Radici cristiane’ su Radio Maria, il vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) Roberto De Mattei ha citato a più riprese lo scritto di Mazzella per spiegare agli ascoltatori il senso escatologico dello tsunami in Giappone.


Non entriamo nell'interpretazione del volere divino sui cataclismi, ma ci sentiamo di citare una frase del Cardinale Angelo Bagnasco durante una sua catechesi: "La morte è un male, ma non è il peggiore". 
Contro De Mattei si è schierata tutta la lobby scientista e laicista, che in Italia è comandata dalla testata giacobina "Il Fatto Quotidiano" e dal filosofo (???) della scienza (quale scienza?) Stefano Moriggi.  Non è la prima volta che De Mattei finisce al centro delle polemiche. Nel 2009 il Cnr ha pubblicato “Evoluzionismo. Il tramonto di un’ipotesi” (Cantagalli). De Mattei aveva affermato di trovare “incredibilmente incoerente che ci si possa dichiarare cristiani ed evoluzionisti” e che “Adamo ed Eva sono personaggi storici e progenitori dell’ umanità”. Sulla prima affermazione del prof. De Mattei non possiamo che essere d'accordo, sulla seconda ci sarebbero da fare delle puntualizzazioni di carattere simbolico e tradizionale, più che storico.

Le lobbies scientista e laicista millantano di difendere la libertà e il progresso, quando invece incitano sempre di più all'odio e all'intolleranza, in particolare verso chi ha un credo cristiano. Costoro dovrebbero rileggersi l'art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, sancita dalle Nazioni Unite nel 1948; ciò presupponendo che riconoscano almeno le Nazioni Unite come la massima autorità mondiale, ma anche su questo abbiamo qualche dubbio. Vediamo cosa sancisce l'art.18:
"Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, in pubblico o in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti." [1]
In coerenza coi principii della democrazia, il prof. De Mattei aveva e ha tutto il diritto di dire esprimere il proprio pensiero, anche nella sfera pubblica.
Lasciamo ai posteri e anche al Tremendus Iudex l'ardua sentenza.

[1] www.amnesty.it

sabato 19 marzo 2011

IL PROBLEMA NON E' IL 17 MARZO, MA UNA RIFLESSIONE CHE MANCA

Articolo di Luca De Netto

 

Nel rispetto delle sensibilità e delle convinzioni di ognuno - soprattutto di chi proviene da percorsi impegnativi, sentiti, e si è nutrito di determinati valori - sarebbe stata opportuna una riflessione maggiore sull'istituzione del 17 marzo come festa nazionale. Infatti, non si può dar torto a quei leghisti ragionevoli, quando sostengono che nel Paese la questione delle celebrazioni per il 150° dell'unificazione statale della Penisola italiana, viene avvertita con accezioni differenti.
Ed i termini non sono casuali. Parliamo infatti di unificazione statale proprio perché già da diversi secoli il territorio italico era unito da un idem sentire, ossia da quella che in molti hanno definito nazione culturale. E già questo porrebbe degli interrogativi su cui riflettere: il 17 marzo 1861, infatti, non è stato e non poteva assolutamente essere l'atto di nascita dell'Italia, così come è erroneo pensare che la nazione italiana sia venuta al mondo con il Risorgimento. Ma poi, festeggiare che cosa esattamente? L'annessione dei diversi territori al Piemonte sabaudo? Il fatto che al posto di diversi regni italici, liberi, cattolici e popolari, ne è stato sostituito uno, anti-cristiano ed asservito, quello si, a potenze straniere? La creazione di uno stato-nazione unitario sul modello giacobino? Insomma, nessuno ancora ce lo ha spiegato bene…
In realtà, l'occasione del 150° va sfruttata diversamente: partendo da un sano e doveroso revisionismo sul risorgimento e sui danni culturali da esso prodotti (Vittorio Messori ha scritto belle pagine sul tema), il discorso va esteso alle modalità dell'unificazione (la letteratura comincia ad essere abbondante) e all'esigenza di riscoprire una identità italiana ben più antica rispetto a quella propagandata dai vari Garibaldi, Mazzini e via dicendo. Davvero siamo così masochisti e così poco innamorati della nostra Patria, per ignorare tutto quello che c'era prima del 1861 e fissare a questa data l'atto di nascita dell'Italia? Solo un secolo e mezzo di storia, con le sue luci e le sue ombre, ci apparterrebbe come italiani? La verità è che si può e si deve rafforzare l'italianità partendo dalle sue radici più autentiche ed antiche, e questo comporta, necessariamente, rivedere la vulgata ufficiale sul periodo risorgimentale. Ma poi, "risorgere" da cosa? Prima di questa ideologia eravamo per caso morti? E Dante? Machiavelli? Giotto? San Francesco? Federico II? Soltanto ironizzando su un grande abuso di sostanze allucinogene, è possibile comprendere che qualcuno, davanti al fatto incontestabile che gli italiani e la cultura nazionale dominavano sull'intera Europa – e non solo – per secoli, abbia poi parlato di popolo "calpesto e deriso"… Ma quando? Dove? Da chi? Eravamo l'Italia dei mille territori, delle Università, della Cultura, dell'Arte, del Diritto, dell'Impero, della Chiesa…
Altro che derisi: rispettati ed invidiati, questo eravamo! E tutti ci consideravano per quello che eravamo, ossia italiani. Certo, italiani del Regno di Sicilia, o italiani del Piemonte, italiani della Repubblica Veneta o Italiani dello Stato Pontificio. Ma italiani comunque. Insomma, si dovrebbe, tenendo presente – limitandola certamente - l'esigenza tutta territoriale leghista, fare un discorso squisitamente complessivo e nazionale, sì da uscire da un lato dalla retorica che non sarebbe compresa da nessuno e che andrebbe a cozzarsi con la realtà storica, e dall'altro per non incorrere in fenomeni di nostalgie, di revanscismi o di egoismi di parte. Solo a quel punto, si potrebbe decidere una data, anche lo stesso 17 marzo, che sancisca l'appartenenza ad una Patria, l'orgoglio di essere italiani, la capacità di fare sintesi tra le tante diversità. Non è detto che questa linea passi, perché il discorso culturale sul punto è complesso, cozza con decenni di propaganda, e forti sono le pressioni di chi - sinistra e finiani in testa - non ha che come riferimento culturale il patriottismo risorgimentale e costituzionale, ossia quanto di più anti-tradizionale possa essere stato impiantato in Italia. E quanto di più vuoto e grigio possa percepire il popolo reale.
Anche se, ad onor del vero, c'è chi anche a destra in quei valori ha creduto, ci crede, e con passione porta avanti la propria visione del mondo. Per uscire dall'empasse senza lacerazioni , però, se proprio non si riesce ad avviare un approfondimento condiviso, la soluzione potrebbe essere demandata alle amministrazioni locali e alle realtà associative, perché non sarà certo una festa in più o in meno, se improvvisata, a modificare i termini della questione. I territori, infatti, dovrebbero essere le sedi più consone per raccogliere certe sensibilità e ricostruire la storia partendo dai fatti, ed al contempo avvertire l'esigenza di un qualcosa che unisca, che coordini, che abbracci: l'Italia, appunto. Ed è li che la natio deve farsi sentire, pulsare, vivere.
Eccola l'Italia reale, la nostra Patria, quella vera, e non quella raccontata per troppo tempo nel libro Cuore.

 

venerdì 11 marzo 2011

Il lavoro nobilita l’uomo…(e lo rende simile alle bestie?!!)

E’ con puro spirito catartico che mi appresto a vergare - seppur virtualmente - queste bianche pagine di Word; al solo scopo di consentire - così come si fa con la pentola sul fuoco, quando si favorisce la fuoriuscita di quel poco di pressione che sarebbe pericoloso e incontrollabile lasciar affiorare in un sol colpo all’apertura del coperchio – una riduzione significativa del mio stato di agitazione e talvolta di rabbia. Per evitare “l’esplosione” o più facilmente “l’implosione”…
Non so se qualcuno avrà accesso a queste mie righe; mi auto assolvo sin d’ora pertanto, se la prosa non sarà particolarmente curata come magari sarei in grado di fare.
L’obiettivo vuole essere chiaro e dichiarato sin dal principio: quali sono le ragioni vere, profonde e ultime del disagio, che  - palesato talvolta da evidenze di carattere  psicofisico (insonnia, mal di stomaco, ansia, tristezza immotivata, paura del futuro…) -  si manifesta oggi in un numero sempre maggiore di persone, a proposito della propria condizione lavorativa?
E’ giusto di questa mattina l’importante presa di posizione di Papa Bendetto XVI, Che, nel corso dell’Angelus di domenica 27 febbraio 2011, così si è espresso:
“La fede nella Provvidenza non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani”
E’ a partire da una lettura seria e approfonite di questa affermazione che provo ad argomentare il mio pensiero.
Il lavoro nobilita l’uomo.
Questa frase, attribuita normalmente a Charles Darwin (1809-1882), segna probabilmente l’inizio di un’era, tutt’ora in corso, che ha mutato concezioni e modi di pensare e di agire che erano stati invece connaturati negli uomini per secoli.
Beh, probabilmente non ci si poteva aspettare molto di più da chi ha provato per tutta la vita (tutt’ora senza validazione scientifica…), a dimostrarci che discendiamo dagli scimmioni, mancando di spiegarci dove sta questo benedetto (o maledetto), anello di congiunzione (che a scadenze prefissate torna sulle cronache e le prime pagine dei TG, salvo poi scomparire mestamente come l’ennesima bufala); e senza chiarirci peraltro come mai, i suddetti scimmioni continuino a esistere oggi, a fianco dell’homo sapiens sapiens.
Nei secoli passati, dire che il lavoro nobilita l’uomo, sarebbe stato certamente inteso come segnale di pazzia o di possessione diabolica…
Me lo immagino il contadino, ricurvo su se stesso dopo 12 ore di lavoro nei campi, recarsi dal latifondista di turno e ricordargli che “il lavoro nobilita l’uomo”… Senz’altro sarebbe stato chiamato il prete per abbozzare un esorcismo.
Già, i preti, i monaci meglio. Proviamo a sfatare un’altra leggenda. Tutti conoscono la Regola benedettina dell’Ora et labora. Prega e lavora, appunto.
E’ evidente che, in un’ottica religiosa ed escatologica, questo aveva un senso profondo. La giornata era tutta dedicata a Dio, verso il quale si rivolgevano preghiere – sin dalla mattina presto - , e per il quale si lavorava assiduamente. Il lavoro era una specie di prolungamento della preghiera, in linea con i Padri del deserto che esortavano i monaci a pregare anche durante il lavoro. Rispondeva inoltre al non secondario bisogno di procurarsi il necessario alla sopravvivenza. E’ stato infine grazie al lavoro dei monaci che ci sono pervenute le più importanti opere storiche e letterarie, oltre che artistiche, del passato.
Lo stesso noto e più volte citato passaggio di San Paolo (Tessalonicesi 2 – 3,10), “chi non vuol lavorare neppure mangi”, se rappresenta senz’altro una conferma della “responsabilità individuale” di ciascuno a provvedere al proprio sostentamento, non costituisce certo, a mio avviso, una apologia acritica e indiscriminata del “lavoro” come strumento “salvifico”.
Intendo dire: è doveroso lavorare e procurarsi con il sudore della fronte ciò di cui ha bisogno, per l’uomo macchiato dal peccato originale. Ma questo non significa, in virtù di qualche erroneo sillogismo, derivarne una esaltazione del lavoro…
Più esplicitamente ancora: ci tocca lavorare per vivere, e questo siamo tenuti a fare.
E comunque, il nobile, per definizione, NON ha mai lavorato.
Il lavoro è indispensabile per la realizzazione dell’uomo?
Così si sente dire spesso, soprattutto da parte di chi, dal lavoro… degli altri… trae vantaggi economici, sociali, di prestigio, quando non addirittura giustificazioni mistico religiose che lo convincono che sta operando per un Bene più grande.
Cosa si intende per realizzazione dell’uomo?
Mi piace citare un bellissimo passaggio di Peguy (L’argent, 1914) a proposito del lavoro:
Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto”
.

Ebbene rifletto da tempo su queste righe, condividendole in pieno, chiedendomi però come sia possibile applicarle oggi, 2011, nella Società odierna.
Come può un addetto al call center “coltivare un onore assoluto” mentre risponde a utenti imbizzarriti perché il decoder è fuori uso e non consente di vedere l’ avvincente puntata de “Il Grande fratello”; oppure come può riuscire un addetto alle vendite di qualche fumosa azienda di servizi, misurato esclusivamente sui ricavi portati o sulle quote di mercato rubate alla concorrenza, riuscire a convincersi che “(la gamba della sedia)…non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario (…) doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura”.
Sempre più facilmente, oggi, si lavora perché costretti a farlo. Per mangiare, per avere un tetto sotto cui dormire… Si è vero, ma sempre più spesso ci troviamo a “fare un lavoro che non ci piace per comprarci cose che non ci servono” come dice Tyler, il protagonista di Fight Club (il cult movie anni’90 con Brad Pitt e Edward Norton).
“La fede nella Provvidenza non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani” ha detto Papa Benedetto XVI questa mattina. Non credo si possa interpretare questa affermazione come una esaltazione del “lavoro” come fine a se stesso. Ma semmai come una esortazione a non farsi sopraffare (e mai come in questo periodo il rischio è concreto), da un’idea di predestinazione, assunta la quale diventa inutile “lottare” e darsi da fare. Superfluo credo sottolineare l’idea di libero arbitrio, distintiva e differenziale per noi cattolici, che non permette a nessuno di trincerarsi dietro uno sconfortante “eh…colpa del destino!”
Intendo piuttosto dire che è privilegio di pochi poter fare un lavoro in grado di suscitare pensieri come quelli magistralmente narrati da Peguy nella citazione sopra riportata. E non mi riferisco, come si potrebbe immaginare, ad attori o cantanti strapagati, spesso con problematiche ben superiori a quelle del comune uomo della strada. Penso invece a chi, come per l’appunto nella pagina di Peguy in oggetto, grazie a una occupazione di tipo artigianale, davvero può percepire queste finezze. Il falegname che “crea” una libreria “fuori standard”, tale da inserirsi al millimetro nel piccolo appartamento del Cliente che ancora (…antico lui…!), vuole conservare qualche decina di libri. Oppure al chirurgo che con l’opera della sua mente e delle sue mani salva quotidianamente la vita alle persone.

Ipotesi future
Quali prospettive allora per il futuro?
Rassegnarsi a una esistenza triste, senza soddisfazioni, come gli schiavi appunto?
Oppure cercare altrove una realizzazione che solo pochi riescono a trarre dal proprio lavoro?
E’ inevitabile che alla lunga, anche questo, come ogni ragionamento che sia degno di questo nome, se esasperato dal punto di vista logico, non possa che portare a pensare in termini “ultimi”, escatologici per i più dotti.
Per quale ragione ci troviamo su questa Terra? Qual è il nostro Progetto? E dove finiremo una volta trapassati?
Non credo di fare azzardi logici se affermo che, in un’ultima analisi, ragionare sul “lavoro” comporti anche ragionare su questo tipo di tematiche.
Invece sempre più spesso sento (s)parlare  - a proposito del “lavoro” - di nuove vision, di  individuazione del proprio ruolo nel mondo, di rispetto per le generazioni future.
Il “lavoro” inteso appunto come strumento di realizzazione per l’Uomo.
Rimango turbato quando sento fare certi accostamenti.
E, attraverso la tastiera del mio PC, li contesto. Si perché non posso permettermi di farlo coram populo, ne andrebbe – appunto – del mio mezzo di sostentamento!
Cosa faresti se potessi vivere di rendita e scegliere davvero, in base alle tue inclinazioni, cosa fare del tempo che il Signore ti vorrà concedere? Sarà capitato a molti di fare questi pensieri…a me capita spesso! Ebbene, personalmente leggerei, studierei, approfondirei tematiche storiche e letterarie che negli anni del liceo ho solo sfiorato (e, diciamola tutta, nemmeno tanto apprezzato…erano un obbligo!). Scriverei senz’altro, per me sia inteso, nessuna velleità giornalistico/letteraria (pubblicista lo sono già stato anni fa…senza particolare soddisfazione nel raccontare, annoiato, di patetici consigli comunali del mio comune, piuttosto che di improbabili corsi di campana tibetana organizzati dal circolo culturale di turno…).
E allora qual è, oggi, la conclusione? Lavoro per vivere, e leggo, studio, approfondisco, scrivo…per diletto, o meglio per “sopravvivere”...
Nella speranza, un giorno, di poter raggiungere un bilanciamento così perfetto, da poter invertire sia i fattori che il risultato finale…
Vana illusione la mia, dettata da un momento di sconforto, che presto sarà sostituita da più terrene aspirazioni?
Non ne ho idea…so solo che in questa ora abbondante trascorsa davanti al PC mi sono sentito davvero bene, e per un momento il mal di stomaco è scomparso!
Devo prenderla come un “segno divino”?

Roberto Solcia