di Rupen Nacaroglu
Sono figlio del genocidio, sono figlio della diaspora, sono figlio di
un popolo che è fuggito, che è stato cacciato dalla sua terra, che è
stato perseguitato per motivi politici e religiosi, sono figlio
dell’odio ma soprattutto, sono figlio dell’amore del popolo armeno per
le sue radici. Sono figlio di un popolo che è radicato ovunque nel
mondo, che ha costruito tante piccole Armenie nelle città che lo hanno
accolto e per finire sono figlio della mia cultura, della mia lingua,
delle tradizioni che i miei genitori hanno avuto il coraggio
d’insegnarmi prima ancora di farmi capire che vivevo lontano da dove
sarei dovuto nascere. Sono figlio del rispetto, dell’educazione e del lavoro:
il lavoro che ha contraddistinto tutte le famiglie armene che hanno
dovuto re-inventarsi nel Paese ospitante. Sono figlio della vita che mi è
stata regalata perché i miei antenati non sono caduti nelle trappole
del genocidio, figlio più fortunato di quelli uccisi nel ventre delle
loro madri durante le torture nei deserti della Siria. Sono figlio di
una Lugano che mi ha saputo accogliere, di una Lugano e di un popolo
svizzero che ho subito rispettato perché mi era stato insegnato a
rispettare incondizionatamente chi ci aveva accettato.
Sono figlio di un Ticino che mi ha educato ad essere avvocato e
essere svizzero, di un popolo che ha sempre fatto dell’accoglienza,
della neutralità una delle sue più grandi forze. Sono figlio di un
genocidio, certo. Un genocidio negato da 102 anni, un genocidio per il
cui riconoscimento lottiamo aspramente, ora più che mai, ora che anche i grandi film di Hollywood vengono affossati perché si permettono di affrontare il tema.
Un genocidio che i grandi del mondo possono sussurrare ma non urlare,
un genocidio che è stato dimenticato a tal punto da giustificare, nella
testa dei nazisti, quello ebraico. Un genocidio, il primo dell’era
moderna, che non è ancora stato mai del tutto riconosciuto e che viene
ancora condannato come una fandonia dal Governo turco. Io sono fiero di
essere armeno e di essere figlio di tutto questo. Sono figlio di un
genocidio, ma soprattutto sono figlio di quegli armeni che sono stati in
grado di trovare la vita dopo la morte. Ovunque nel mondo.
Mi piace ricordare William Saroyan, armeno di Fresno
in California, scrittore e drammaturgo, che un giorno scrisse: "Vorrei
vedere qualunque potenza del mondo distruggere questa razza, questa
piccola tribù di gente senza importanza, di cui tutte le guerre sono
state combattute e perse, le cui istituzioni sono crollate, la cui
letteratura non è letta, la cui musica non è ascoltata e le cui
preghiere non sono esaudite. Avanti, distruggete l’Armenia. Provate a
riuscirci. Inviateli nel deserto, senza pane né acqua. Bruciate le loro
case e le loro chiese. Vedrete dopo che loro rideranno, canteranno e
pregheranno di nuovo, poiché quando due di loro si incontrano, non importa in quale angolo del mondo, voi vedrete che loro creeranno una nuova Armenia". Io sono figlio di tutto questo.
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