Anche
senza scivolare in una visione così nera di derivazione pirandelliana, è
pur vero che un fondo di verità esiste nel concetto che gli esami non
hanno mai fine e che sempre ci sarà qualcosa o qualcuno che, nel corso
della nostra vita, pretenderà di rifarceli, per vedere se siamo
meritevoli di procedere o se, viceversa, dobbiamo migliorare la nostra
preparazione e sostenerli una seconda e, se necessario, una terza e una
quarta volta
Allo
studente liceale o universitario che, dopo tanto studio e sacrificio,
stringe finalmente in mano il proprio diploma e dà un addio ai libri e
alla scuola o all’ateneo, sembra, per un momento, di toccare il cielo
con un dito: è come se un grave peso gli fosse caduto dalle spalle,
amici e parenti lo complimentano e lo festeggiano ed egli, come si suole
dire, può finalmente alzare le vele della navicella e affrontare il
mare aperto della vita.
Non
tarderà a scoprire, tuttavia, indipendentemente dal valore concreto del
pezzo di carta che certifica il suo completamento di un determinato
corso di studi, che tutta la fatica e tutto l’impegno profusi sino ad
allora sono cosa da poco, in confronto a ciò che la vita si appresta a
chiedergli; e non tarderà a provare un sincero rimpianto per quegli anni
passati sui libri, per quei compagni, perfino per quei professori,
insomma per tutto quell’ambiente e quel ritmo di lavoro i quali
riempivano, in gran parte, e davano un senso compiuto al suo orizzonte
di vita.
Ma
poi? Che succede quando non ci sono più esami da sostenere, ma si
scopre che la vita è tutto un esame, un esame continuo, molto più severo
e molto più pressante di quelli che gli studenti devono sostenere per
conseguire il diploma o la laurea? E che davanti a tale esame
incessante, esigente, imperioso, si rischia di trovarsi sempre
fatalmente impreparati, e che nessuno studio, nessuna diligenza, nessuna
strategia riusciranno mai a garantire un minimo livello di sicurezza
nei confronti delle sorprese che esso può riservare?
D’altra
parte, è possibile considerare la cosa anche da un altro punto di
vista; e, pur senza negare l’assunto di base, pervenire a delle
conclusioni molto diverse da quelle, amare e pessimistiche, di scrittori
come Pirandello e De Filippo.
Tanto per cominciare: è davvero un male, una cosa negativa in sé stessa, il fatto che gli esami non finiscano mai?
E
in secondo luogo: è corretto pensare a tali esami come se fosse la vita
a farceli, ad imporceli in modo arbitrario; o non sarebbe più giusto,
più realistico, vederli piuttosto come degli esami che noi facciamo a
noi stessi, che una parte di noi fa all’altra parte, talora in maniera
equa e comprensibile, altre volte in maniera abnorme, compulsiva e
irrazionale? Vediamo.
Per
gli animali non ci sono esami, con l’eccezione degli animali
addomesticati. L’animale che vive libero deve affrontare delle
difficoltà e sa di poter contare solo su se stesso, ma questo non è un
esame. Tutt’al più, si possono paragonare a degli esami i combattimenti
fra maschi per la conquista delle femmine: fra i lupi, ad esempio, o fra
i cervi, o fra gli stalloni o i tori. Ma il concetto di “esame” implica
quello di giudizio, e il giudizio non è mai un fatto solamente tecnico,
ma anche, e sia pure di riflesso, un fatto spirituale e morale.
L’animale
sconfitto nella lotta per il dominio del branco subisce, questo è
certo, anche una umiliazione; tuttavia, non bisogna spingere troppo
oltre l’analogia con gli esseri umani: perché, in natura, non vi è
morale e poi perché devono esserci un vinto e un vincitore, affinché sia
il migliore a svolgere la funzione sociale più importante, a cominciare
da quella riproduttiva.
Solo nel mondo umano la competizione sociale è ritualizzata e mascherata - anche se esiste, eccome - a
un punto tale che, teoricamente, potrebbero darsi solo dei vincitori,
come nel caso di un primo premio assegnato “ex aequo” a due soggetti, o
in quello di un accordo per la divisione consensuale di un bene agognato
da più soggetti. Inoltre, solo nel mondo umano si opera una scelta in
base a dei valori morali: la gallina che becca a morte un cucciolo di
coniglio agisce per istinto, secondo natura (e chi vive in campagna, può
assistere centinaia di volte a episodi di questo genere); mentre l’uomo
che aggredisce malignamente un suo simile agisce in base a una scelta
morale, ossia in base a una scelta tra il bene e il male.
Nessun
giudizio, dunque, e nessun esame è possibile nei confronti dell’animale
- anche se, nei secoli passati, talora la pensavano diversamente, e il
maiale reo di aver divorato un bambino incustodito nella culla, poteva
anche essere processato, condannato e impiccato; mentre
sia l’esame che il giudizio, anche solo di tipo morale, sono sempre
presenti nella vita umana, che è fatta di azioni volontarie e di scelte
continue; e, come abbiamo detto, l’esame può venire tanto dall’esterno,
cioè dagli altri, quanto dall’interno, cioè da noi stessi.
Per
tornare alla precedente domanda: dover sostenere continuamente delle
prove e dei giudizi non è un male; perché la vita è lotta, e questo è il
solo modo per tenersi allenati ad affrontarla nel modo giusto.
Precisiamo: la vita è lotta, ma non nel senso del darwinismo sociale o,
peggio, del superomismo nietzschiano; bensì nel senso che essa richiede
incessantemente a tutti, dunque anche alle anime più miti, anzi ad esse
specialmente, di confrontarsi con difficoltà, sacrifici, rinunce, scelte
penose, dolorose lacerazioni. Crediamo che si tratti di una
constatazione talmente ovvia, da non abbisognare di alcuna
dimostrazione; bisognerebbe essere fatti di stoppa o avere un cuore di
pietra anziché di carne, per non rendersene conto.
Il
fatto che la vita sia lotta, e lotta continua, non implica
necessariamente che essa sia ingiusta, o crudele, o spregevole e indegna
delle anime belle; significa, semmai, che in essa vi sono momenti e
situazioni dolorosi, che non si possono evitare in alcun modo e che è
giocoforza attraversare, come si può, meglio che si può, sforzandosi di
salvare, ed eventualmente di rafforzare, la propria parte migliore:
quella più generosa, più sensibile, più amorevole
Nessuna
difficoltà, nessun sacrificio e nessuna rinuncia hanno il potere di
renderci peggiori, se noi non vi acconsentiamo; nessuna delusione può
renderci amari e sconsolati, se noi non siamo disposti a cullarci in
essa, a piangerci addosso, a chiuderci in essa come in un alibi per
giustificare, davanti a noi stessi e agli altri, la nostra tendenza
all’autocommiserazione, alla passività, alla rinuncia senza alcun
tentativo di lotta.
In
questo senso, gli “esami” sono dei passaggi necessari per la nostra
crescita: se non vi fossero, è molto probabile che scivoleremmo
nell’indolenza e nell’apatia; essi, invece, sferzando a sangue la nostra
pigrizia, ci costringono a metterci alla prova, a riprendere la
bisaccia del viandante ogni volta che saremmo tentati di sedere in
pantofole, a salpare le ancore e sfidare i liberi venti del mare aperto
ogni volta che vorremmo trattenerci pigramente in porto.
E veniamo alla seconda questione: chi è che fa gli esami e chi è a doverli sostenere.
Certo,
gli esami della vita ci espongono al giudizio altrui: non dovremmo,
però, sopravvalutare questo aspetto, ma concentrarci piuttosto
sull’altro, quello dell’esame interiore. Essere approvati dagli altri
può essere un buon segno o un cattivo segno, ciò dipende da molti
fattori; ma, in buona sostanza, dipende dalla natura dell’esame e degli
esaminatori. In una società buona, essere approvati dagli altri è una
cosa buona, mentre essere disapprovati è una cosa cattiva; ma, in una
società cattiva, può essere vero (si badi, non è necessariamente vero)
l’opposto.
Per
fare un esempio: in una famiglia buona, l’approvazione dei genitori
all’operato di un figlio è cosa buona, la loro disapprovazione è una
cosa cattiva; mentre in una famiglia cattiva, l’approvazione o la
disapprovazione dei genitori possono essere cosa buona o cattiva a
seconda delle circostanze. Abbandonare un genitore anziano e malato è
cosa cattiva, anche se quel genitore è cattivo, mentre prendersi cura di
lui, nei limiti del possibile, è cosa buona: una azione può essere
buona anche se il giudizio altrui è negativo; ma non è detto che il
giudizio negativo di una persona cattiva sia automaticamente il segno
che si è agito bene.
Per
sapere se si è agito bene, in ultima istanza esiste un solo tribunale
realmente titolato: quello della propria coscienza, purché sia una
coscienza retta e allenata al bene. Non qualunque coscienza è buon
giudice di se stessa, ma solo una coscienza che, se non è del tutto
buona, quanto meno tende al bene, lo sa vedere, lo sa riconoscere e si
sforza di seguirlo, o, se non altro, si rammarica di non saperlo o di
non poterlo fare.
In
questo senso, gli esami che noi facciamo a noi stessi non finiscono
mai, né debbono mai finire: guai se, arrivati a un certo punto,
finissero: vorrebbe dire che siamo entrati nella zona d’ombra
dell’ignavia morale, che abbiamo smesso di lottare, che abbiamo smesso
di interrogarci; soprattutto, vorrebbe dire che abbiamo smesso di essere
esigenti e intransigenti con noi stessi. E questo è, senza alcun
dubbio, un male.
Attenzione:
essere esigenti e intransigenti con se stessi è una cosa buona, purché
sia condotta in un modo buono; vale a dire senza esagerazioni
compulsive, senza estremismi patologici, senza tortuosità morbose.
L’anima sana è giustamente esigente con se stessa; l’anima malata è
esigente in maniera sproporzionata, assurda, incontentabile.
Per
esempio: l’anima sana sarà addolorata, ma anche serena, davanti a un
male che non abbia potuto impedire, perché esso non era umanamente
evitabile; l’anima malata non si darà pace e si colpevolizzerà per
qualunque cosa, anche per ciò che non era in suo potere di fare o di
evitare: come non è in nostro potere salvare chi non vuole essere
salvato, né è in nostro potere evitare l’ultima partenza delle persone a
noi care.
L’anima
malata è incapace di rassegnazione; da questo la si riconosce: essa non
si rappresenta realisticamente la realtà, ma amplifica le cose e le
situazioni a dismisura, per potersi flagellare e attribuire colpe
immaginarie, per sentirsi responsabile di tutto quel che di male succede
nel mondo. La coscienza esageratamente severa con se stessa è, dunque,
l’espressione di una malattia dell’anima: di una malattia che risiede
altrove, non nel fatto per cui essa si affligge, ma per qualcosa di
molto più profondo ed essenziale, qualcosa che essa non ha mai avuto il
coraggio di guardare in faccia.
Noi
esseri umani, per esempio, non siamo Dio: non possiamo sostituirci a
Lui, non possiamo fare tutto il bene che vorremmo, né evitare tutto il
male che detestiamo: perché, dopotutto, siamo soltanto umani. Il più
grande inganno e la più grande crudeltà che siano stati perpetrati
contro l’anima dell’uomo consistono nell’aver proclamato che, dopo la
morte di Dio, l’uomo doveva farsi il Dio di se stesso, onnipotente e
infallibile.
Un’altra
manifestazione di malattia del’anima è quella opposta: l’ignavia,
l’abbandono, la passività rinunciataria. Lo abbiamo già detto; anche
questa è malattia; e anche ciò genera una falsa coscienza: perché una
tale anima dà luogo a una coscienza appannata, ottusa, smarrita, del
tutto incapace di prendersi cura di se stessa, per non parlare degli
altri.
Di
solito queste anime deboli cercano, per tutta la vita, una stampella
cui appoggiarsi: una moglie o un marito, un figlio o un amante, un
partito o una parrocchia; ma sempre si troveranno a dipendere da
qualcosa che non è in loro, che non fa parte di loro; da qualcosa che,
nel migliore dei casi, altro non farà che perpetuare la loro debolezza,
la loro eccessiva indulgenza verso se stesse, il loro segreto
auto-disprezzo.
Così,
per due vie appartenente opposte, quella del credersi Dio e quella del
ritenersi un niente, l’anima è suscettibile di ammalarsi e di esprimere
una falsa coscienza di sé. La salute dell’anima, d’altra parte, non è un
dato naturale, ma una conquista faticosa e sofferta: tanto più faticosa
e tanto pià sofferta quanto più l’anima è ricca, sensibile e
predisposta al bene. È un mistero: l’anima predisposta al bene soffre di
più; ma anche il suo splendore è più grande.
Così,
siamo giunti alle soglie del mistero della sofferenza. Quest’ultima non
è un bene in se stessa, ma un mezzo di purificazione e di elevazione,
beninteso se vissuta con coraggio e con fedeltà alla propria chiamata:
e, in un certo senso, siamo tutti chiamati ad essere santi. Il fatto che
solo pochi ci riescano, dipende soltanto da una debolezza del vedere,
del volere, dell’amare…