Proponiamo la recensione di un libro sulla crisi dell'uomo contemporaneo, scritto da Roberto Marchesini, già autore di "Quello che gli uomini non dicono". Concordiamo senza esitazione sulla necessità del recupero delle quattro virtù cardinali: Fortezza, Prudenza, Temperanza e Giustizia.
di Andreas Hofer (dal blog di Costanza Miriano)
L’uomo contemporaneo è in crisi di virilità. Roberto
Marchesini in un aureo libretto traccia una preziosa mappa per
permettergli di riscoprire se stesso e la grandezza della sua vocazione
attraverso il difficile – e al tempo stesso esaltante – cammino delle
virtù. Solo così nel petto dell’uomo del terzo millennio tornerà a
battere il cuore di un cavaliere medievale. Le prime fra tutte le virtù
sono, naturalmente, quelle dette “cardinali”.
A che serve un Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio come quello che ha dato alle stampe Roberto Marchesini per Sugarco? Sappiamo quale sia la reazione quasi pavloviana del
mainstream.
Ma perché mai avere un codice? A che ci serve? Noi facciamo quello che
ci pare e piace! È il principio alla base dell’edonismo di ogni tempo:
lo scopo della vita sta nella ricerca del piacere.
Ma davvero cercare il piacere vuol dire fare quello che si vuole? Qui sta precisamente l’inganno della morale del piacere. Sì, perché fare
ciò che ci piace non coincide affatto col fare
ciò che si vuole, ci ricorda Marchesini – che in questa sua ultima fatica riannoda le fila di un discorso iniziato sette anni fa con
Quello che gli uomini non dicono.
E lo prova il fatto che ci si impegni in attività faticose, che esigono
sacrificio (come lo sport, lo studio, il lavoro, ecc.) senza che
nessuno ci costringa a farlo. Il piacere anestetizza, solleva dalla
sofferenza. Ma non può dare senso alla nostra vita. Chi pensa solo a
divertirsi (dal latino
divertere, cioè allontanare, deviare) in
realtà è qualcuno che cerca di allontanarsi dalla sofferenza. Il
divertimento sottrae per un attimo fuggente dall’angoscia di una vita
senza scopo, non di più.
Eccolo, il nemico mortale della morale del piacere: l’idea che la vita abbia un télos,
uno scopo intrinseco, e che la vita trovi la sua piena realizzazione
soltanto col compimento di questo scopo. L’imperativo del divertimento
per tutti e a tutti i costi non vale che a consegnare la vita umana a un
insensato eterno presente.
In verità c’è stata nell’Antichità una scuola
filosofica che considerava il piacere come lo scopo della vita: la
scuola di Aristippo di Cirene. A differenza dell’amico Socrate,
Aristippo non disputò mai sul fine ultimo della vita accontentandosi di
affermare che la felicità stava nella ricerca del piacere. Una posizione
che aveva delle precise conseguenze sul piano morale. Se solo il
piacere è la misura del bene, allora la virtù e l’amicizia non sono
altro che beni strumentali, utili solo per la nostra convenienza. Per la
scuola cirenaica nemmeno esisteva un ordine naturale. «Nulla è giusto o
bello o turpe per natura, ma solo per convenzione (nomos) e consuetudine (ethos)», si legge in uno dei frammenti dei Cirenaici.
Uno dei discepoli più coerenti di Aristippo fu un certo Egesia, il
quale sosteneva l’impossibilità di raggiungere la felicità (sempre
intesa come piacere) poiché quaggiù sulla terra, a causa dei dolori del
corpo, i piaceri si rivelano davvero pochi. E non esistendo altri valori
all’infuori del piacere e dell’utilità tanto valeva allora darsi la
morte. Questo radicale pessimismo valse ad Egesia il poco lusinghiero
soprannome di “persuasore di morte” (peisithanatos), visto che
molti, udite le sue teorie, si davano spontaneamente la morte. Per
questo gli fu vietato di insegnare la sua deleteria dottrina nelle
scuole.
Inutile dire dove aleggi oggi lo spirito di Egesia. Non
è difficile intravedere la sua ombra dietro all’opera di quei
manutengoli senza scrupoli che accompagnano, da novelli persuasori di
morte, i fragili e i deboli verso i servizi eutanasici forniti a caro
prezzo da alcune cliniche svizzere. L’imperativo del piacere promette
una falsa liberazione. Non porta ad altro che alla schiavitù dalle
passioni, non senza prima averci illusi di aver optato liberamente per
la morte. Ma c’è libertà nella scelta del nulla? Non è invece un
desiderio di onnipotenza che, come quello che ghermisce Kirillov nei Demoni
portandolo al suicidio, è solo il tipico prodotto di una fantasia
infantile? Dunque di una volontà immatura, non pienamente realizzata?
Le passioni, insiste Marchesini, schiavizzano se non
sono dominate e orientate dalla retta ragione. Come sfuggire allora ai
moderni discepoli di Egesia? Innanzitutto ricordandosi che la vita è
fatta per essere spesa per qualcosa di superiore alla vita stessa. La
vera felicità sta nel donare se stessi. E a questa paradossale felicità
si arriva coltivando virtù come il coraggio, la prudenza, la temperanza,
la giustizia.
Solo così l’uomo arriva a realizzare se stesso trasformandosi, come dicevano i latini, da homo (l’essere biologicamente di sesso maschile) in vir, l’uomo pienamente tale. È la virtus
a rendere virile un uomo, non la semplice biologia (il fatto di essere
nato maschio). Il maschio ha il dovere di diventare un uomo, attuando
così il potenziale donatogli al momento del concepimento.
Come può il maschio diventare ciò che è in potenza, cioè un uomo? La virtù è come un abito (habitus). Per manifestarsi deve perciò essere indossata. Come diceva Aristotele si diventa coraggiosi se ci si comporta da coraggiosi.
Uno dei pregi indiscutibili di Marchesini è la
capacità di mostrare con chiarezza, senza nulla concedere
all’ampollosità, il legame organico tra quelle che canonicamente vengono
definite “virtù cardinali”. E tali sono per la loro natura di perno,
dunque di base che permette di articolarsi.
La prima tra le virtù cardinali è il coraggio (o
fortezza), che non ha alcun grado di parentela con la temerarietà.
Essere coraggiosi non consiste nel ricercare un annientamento fine a se
stesso. Il coraggio non ha nulla a che vedere con la mistica della
“bella morte”. È piuttosto la disposizione ad accettare il rischio di
essere feriti, anche mortalmente, nella lotta contro il male. La
fortezza pertanto presuppone un discernimento lucido tra il male e il
bene. E questo giudizio richiede la virtù della prudenza,
che a sua volta non si identifica con quella mediocrità anodina che
rifugge ogni presa di posizione. Il vero prudente è il saggio che dopo
aver individuato il bene lo abbraccia con risolutezza.
Un’altra virtù indispensabile è la temperanza. Le emozioni non vanno soppresse ma guidate. L’emozione (dal latino emovere,
smuovere, spingere all’azione) serve a dare forza al nostro agire,
serve a dare un corpo vibrante alle idee. Ma guai quando è l’emozione,
cioè la passione, a guidare l’azione dell’uomo! Una emozione come il
timore paralizza se prende il sopravvento. Solo se la guida resta salda
in mano alla ragione il timore assolve la sua funzione ordinaria: quella
di essere un segnale che ci indica il pericolo, che ci dice di stare
attenti. Per questo oltre al coraggio e alla prudenza è necessaria una
terza virtù: la temperanza, che ci permette di dominare le passioni
orientandole verso il bene.
Infine c’è una quarta virtù cardinale: la giustizia, la
capacità di dare a ciascuno quanto gli spetta. Essere giusti è qualcosa
di più che osservare la semplice “legalità” (dato che, come ci insegna
l’esperienza, vi possono essere leggi ingiuste che fungono da alibi a
una irresponsabilità generalizzata). E l’uomo giusto nemmeno è il
cultore del “doverismo” (il dovere per il dovere di kantiana memoria).
Giusto è chi riconosce una legge superiore a sé e sente impegnata la
propria personale responsabilità anche quando fare ciò che è giusto
potrebbe nuocergli. Non c’è amore per la giustizia senza il coraggio.
Altre qualità legate alle virtù cardinali sono la
sincerità (il coraggio di dire la verità in un mondo invaso dalla
menzogna), l’onore (il possesso della virtù spinto al punto di saper
rinunciare anche alla propria reputazione), la lealtà (la fedeltà alla
parola data, qualcosa di molto superiore al semplice rispetto della
legalità), la franchezza (antidoto al cinismo), la cortesia (la volontà
di dare sempre il meglio di sé, soprattutto nelle relazioni coi più
deboli).
C’è mai stato qualcuno capace di incarnare in maniera esemplare questi
valori? Ebbene, c’è stato: il cavaliere. Nella cavalleria medievale gli
uomini imparavano a essere generosi, coraggiosi, giusti, leali, cortesi.
Morire, per il cavaliere medievale, era il coronamento di una vita
donata al servizio della virtù.
L’uomo del terzo millennio è rimasto sprovvisto di codici cavallereschi perché è rimasto senza telos,
senza uno scopo da dare alla propria esistenza. Ecco perché oggi è
smarrito, debole, incerto. Sono numerose le immagini evocate dagli
osservatori più acuti per descrivere la condizione dell’uomo
contemporaneo: barbaro civilizzato, homo comfort, selvaggio con
telefonino, signorino soddisfatto, bimbo viziato, uomo senza qualità,
ecc.
In definitiva l’essere rimasto puramente “maschio” appare
sinistramente simile ai Proci, questi eterni adolescenti nemici giurati
della figura virile di Ulisse, o alle Bandar-log, le orde scimmiesche
che nel “Libro della giungla” di Kipling simboleggiano una psicologia
immatura, incapace di rispettare la legge e pertanto letteralmente fuori
controllo. Oggi vediamo personificate queste lugubri figure negli
sciami anonimi di web-squadristi, pronti a scattare per azzannare e
linciare senza pietà chiunque capiti loro a tiro. Senza lo spirito
cavalleresco non resta che una massa di individui schiavizzati dal
proliferare incontrollato delle passioni.
E allora ben venga l’esortazione di Marchesini: se
vogliamo cominciare ad essere responsabili, cioè uomini capaci di amare
la vita, dobbiamo rottamare i falsi miti – come quello del seduttore
“bello e dannato” – per tornare ad attingere a veri miti come quello del
cavaliere “senza macchia e senza paura”. Come ha detto mirabilmente
Gustave Thibon, non bisogna dare credito “ai distruttori delle regole
che parlano in nome dell’amore”. Perché “là dove la regola è frantumata,
l’amore abortisce”.
La parola più usata per descrivere l’ora presente è forse «crisi». Crisi
economica, che dura ormai da quasi un decennio; crisi geopolitica, per
la quale è sempre più difficile prevedere l’esito finale; crisi sociale,
per cui vivere diventa sempre più difficile. Ma accanto a queste crisi,
e forse all’origine di esse, c’è la crisi morale.
Non è solo una «crisi dei valori», come spesso si legge: l’edonista uomo
occidentale contemporaneo sembra vivere in un vuoto morale. È libero di
vivere secondo il proprio gusto, ma di questa libertà non sa che
farsene. Avuto il suo piatto di lenticchie (l’ultimo modello di
smartphone, lo status symbol del momento) si guarda intorno smarrito e
angosciato.
C’è altro, nella vita? Può aspirare a qualcosa di meglio?
Come scriveva Goethe, «Vivere secondo il proprio gusto è da plebeo; l’animo nobile aspira a un ordine e a una legge».
Per tutti gli uomini che aspirano a un ordine e ad una legge, Roberto
Marchesini propone questo Codice cavalleresco per l’uomo del terzo
millennio.
Per pochi fortunati, per un manipolo di fratelli.