Cavalleria Cristiana

"È autentica Cavalleria Cristiana quella dei Cavalieri Erranti, nel duplice senso di andare ed errare, simili ai saggi e giusti di Dio, i quali si ritirano di tanto in tanto nella fortezza della Tradizione Interiore per dare la scalata alle vette dello Spirito" Primo Siena

venerdì 23 settembre 2011

Crisi euro, l'ombra della guerra.

di Alberto Tundo
 
Il ministro delle Finanze polacco ha evocato il rischio di un ritorno dei conflitti sul continente nel caso in cui la moneta comune venisse affondata
In queste settimane di borse in altalena e panico generalizzato, di parole sulla crisi che sta scuotendo l'area euro se ne sono spese tante ma quelle del ministro delle Finanze polacco Jacek Rostowski hanno fatto molto rumore. Rostowski, parlando a Strasburgo mercoledì 14 settembre, davanti ai membri del parlamento europeo, ha riferito una conversazione avuta con "un vecchio amico che ora dirige una grossa banca", nel corso della quale il banchiere avrebbe commentato la crisi dell'eurozona dicendo: "Guarda, dopo tutti questi shock politici ed economici, è davvero difficile che riusciremo ad evitare una guerra". Probabilmente, Rostowski stava parlando di un qualche pezzo grosso della svizzera Ubs, dal cui quartier generale il 6 settembre era uscito un dossier intitolato Euro Break Up: the Consequences, firmato dagli analisti Stephane Deo, Paul Donovan e Larry Hathaway. Un documento snello, appena 21 pagine, che dimostra che per risolvere la crisi dell'euro non ci sono scorciatoie, che tutti i discorsi sull'espulsione di un membro sull'orlo del crack o la defezione di uno stato che volesse sfuggire alla crisi non hanno senso.
Lo studio sviluppa parallelamente due ipotesi: la prima, che ad uscire dall'euro, consensualmente o per espulsione, sia un Paese piccolo, per peso economico e popolazione, come la Grecia o il Portogallo; la seconda, che al contrario "attraversi la linea del Rubicone" un peso massimo, come la Germania, per ragioni contrarie. Gli analisti calcolano che al primo l'uscita dall'euro costerebbe una cifra compresa tra il 40 e il 50 per cento del Pil soltanto nel primo anno; ogni cittadino dello stato in questione pagherebbe tra i 9500 e gli 11500 euro nei primi 12 mesi, e tra i tremila e i quattromila euro negli anni seguenti. Anche il secondo, però, pagherebbe un conto piuttosto salato per sbarazzarsi degli stati zavorra: tra un 20 e un 25 per cento del Pil nel primo anno, tra i sei e gli ottomila euro a cittadino, e tra i tremila e i 4500 in quelli seguenti. Se invece le economie più forti si accollassero il 50 per cento del debito complessivo di Grecia, Irlanda e Portogallo, i tedeschi pagherebbero mille euro circa, una volta sola. Suicidare l'euro - perché questo comporterebbe l'uscita di un membro, non importa quanto grande - non è conveniente.
Se l'area euro perdesse un membro, l'Europa tutta pagherebbe un costo politico enorme, sia per quanto riguarda le ripercussioni sull'intero progetto europeo, il funzionamento delle sue istituzioni che il peso nell'arena internazionale. Ma altrettanto spaventosi sono gli effetti economici in senso stretto. Cinque, quelli principali. Il primo è il default del debito sovrano, che comporta una situazione di insolvibilità. Il Paese si troverebbe ad avere un debito nominato in una valuta estera ma senza potere raccogliere quella moneta con le tasse. Dovrebbe quindi aumentare le esportazioni verso l'area euro per incassare più valuta pesante o, in alternativa, dovrebbe ricorrere ad una conversione forzosa del debito, il che costituirebbe agli occhi di molti investitori internazionali una prova di default. Gi analisti prendono anche in considerazione la probabilità che possa seguire anche un "corporate default" ma passano subito a considerare il secondo problema, quello del fallimento del sistema bancario nazionale, un meccanismo di trasmissione perfetto della crisi, a causa del panico che si diffonderebbe. Verosimilmente, molti cittadini ritirerebbero depositi e risparmi in euro prima della conversione nell'Nnc e li porterebbero all'estero o in caso di chiusura delle frontiere li seppellirebbero in giardino, come accadde con la fine dell'Unione monetaria degli Stati Uniti nel 1932-33. Il terzo e il quarto costo riguardano la rottura con l'Unione – dal momento che, spiegano gli analisti, uscire dall'Euro significa andare contro lo spirito dei Trattati ed equivale a essere fuori dall'Ue – e il ripristino di tariffe e barriere e un ritorno al protezionismo, scontato nel caso in cui la nuova moneta, soprattutto nel caso di un Paese piccolo, si deprezzasse considerevolmente e l'Unione reagisse proteggendo i propri mercati con l'imposiizone di tariffe sulla merce proveniente dallo stato uscente.
In questo scenario, il rischio di svolte autoritarie, disordine civile e guerra diventa estremamente reale. "La fine delle unione monetarie storicamente si è quasi sempre accompagnato a guerre civile e rivolte", si legge a pagina 10. Nel 1993, quando Repubblica Ceca e Slovacchia si separarono, si arrivò alla chiusura delle frontiere, al controllo dei movimenti di capitali e a un limite sui prelievi. In Slovacchia in particolare per alcuni anni si assistette alla restrizione dei diritti politici e delle libertà civili. Anche il collasso dell'Unione Sovietica fu seguito dalla nascita di alcuni stati autoritari, ma milizie, sommosse e pistole spuntarono anche dopo il fallimento dell'Unione monetaria degli Stati Uniti nel 1932. Con l'uscita di un Paese dall'area euro, grande o piccolo non importa, il costo della membership per quelli rimanenti aumenterebbe e s'innesterebbe una spinta centrifuga. Ma il crollo dell'euro comporterebbe la fine dell'Ue e avrebbe dimensioni e ripercussioni inimmaginabili, dal momento che l'Ue oscilla tra il primo e il secondo posto per peso economico nel mondo. "I costi economici dello scioglimento dell'euro sono molto alti ed estremamente dannosi. Quelli politici sono talmente grandi da non essere quantificabili in soldi", concludono gli analisti. La fine dell'euro è un'ipotesi da non accarezzare troppo.

fonte: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=40226

domenica 11 settembre 2011

Questa parola è dura!

CELEBRAZIONE EUCARISTICA
A CONCLUSIONE DEL XXV CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE ITALIANO
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Cantiere Navale di Ancona
Domenica, 11 settembre 2011 

Carissimi fratelli e sorelle!
Sei anni fa, il primo viaggio apostolico in Italia del mio pontificato mi condusse a Bari, per il 24° Congresso Eucaristico Nazionale. Oggi sono venuto a concludere solennemente il 25°, qui ad Ancona. Ringrazio il Signore per questi intensi momenti ecclesiali che rafforzano il nostro amore all’Eucaristia e ci vedono uniti attorno all’Eucaristia! Bari e Ancona, due città affacciate sul mare Adriatico; due città ricche di storia e di vita cristiana; due città aperte all’Oriente, alla sua cultura e alla sua spiritualità; due città che i temi dei Congressi Eucaristici hanno contribuito ad avvicinare: a Bari abbiamo fatto memoria di come “senza la Domenica non possiamo vivere”; oggi il nostro ritrovarci è all’insegna dell’“Eucaristia per la vita quotidiana”.
Prima di offrivi qualche pensiero, vorrei ringraziarvi per questa vostra corale partecipazione: in voi abbraccio spiritualmente tutta la Chiesa che è in Italia. Rivolgo un saluto riconoscente al Presidente della Conferenza Episcopale, Cardinale Angelo Bagnasco, per le cordiali parole che mi ha rivolto anche a nome di tutti voi; al mio Legato a questo Congresso, Cardinale Giovanni Battista Re; all’Arcivescovo di Ancona-Osimo, Mons. Edoardo Menichelli, ai Vescovi della Metropolìa, delle Marche e a quelli convenuti numerosi da ogni parte del Paese. Insieme con loro, saluto i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, e i fedeli laici, fra i quali vedo molte famiglie e molti giovani. La mia gratitudine va anche alle Autorità civili e militari e a quanti, a vario titolo, hanno contribuito al buon esito di questo evento.
“Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Davanti al discorso di Gesù sul pane della vita, nella Sinagoga di Cafarnao, la reazione dei discepoli, molti dei quali abbandonarono Gesù, non è molto lontana dalle nostre resistenze davanti al dono totale che Egli fa di se stesso. Perché accogliere veramente questo dono vuol dire perdere se stessi, lasciarsi coinvolgere e trasformare, fino a vivere di Lui, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda Lettura: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8).
“Questa parola è dura!”; è dura perché spesso confondiamo la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà. E’ questa un’illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura e portando, paradossalmente, a rimpiangere le catene del passato: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto…” – dicevano gli ebrei nel deserto (Es 16,3), come abbiamo ascoltato. In realtà, solo nell’apertura a Dio, nell’accoglienza del suo dono, diventiamo veramente liberi, liberi dalla schiavitù del peccato che sfigura il volto dell’uomo e capaci di servire al vero bene dei fratelli.
“Questa parola è dura!”; è dura perché l’uomo cade spesso nell’illusione di poter “trasformare le pietre in pane”. Dopo aver messo da parte Dio, o averlo tollerato come una scelta privata che non deve interferire con la vita pubblica, certe ideologie hanno puntato a organizzare la società con la forza del potere e dell’economia. La storia ci dimostra, drammaticamente, come l’obiettivo di assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione si sia risolto in un dare agli uomini pietre al posto del pane. Il pane, cari fratelli e sorelle, è “frutto del lavoro dell’uomo”, e in questa verità è racchiusa tutta la responsabilità affidata alle nostre mani e alla nostra ingegnosità; ma il pane è anche, e prima ancora, “frutto della terra”, che riceve dall’alto sole e pioggia: è dono da chiedere, che ci toglie ogni superbia e ci fa invocare con la fiducia degli umili: “Padre (…), dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11).
L’uomo è incapace di darsi la vita da se stesso, egli si comprende solo a partire da Dio: è la relazione con Lui a dare consistenza alla nostra umanità e a rendere buona e giusta la nostra vita. Nel Padre nostro chiediamo che sia santificato il Suo nome, che venga il Suo regno, che si compia la Sua volontà. E’ anzitutto il primato di Dio che dobbiamo recuperare nel nostro mondo e nella nostra vita, perché è questo primato a permetterci di ritrovare la verità di ciò che siamo, ed è nel conoscere e seguire la volontà di Dio che troviamo il nostro vero bene. Dare tempo e spazio a Dio, perché sia il centro vitale della nostra esistenza.
Da dove partire, come dalla sorgente, per recuperare e riaffermare il primato di Dio? Dall’Eucaristia: qui Dio si fa così vicino da farsi nostro cibo, qui Egli si fa forza nel cammino spesso difficile, qui si fa presenza amica che trasforma. Già la Legge data per mezzo di Mosè veniva considerata come “pane del cielo”, grazie al quale Israele divenne il popolo di Dio, ma in Gesù la parola ultima e definitiva di Dio si fa carne, ci viene incontro come Persona. Egli, Parola eterna, è la vera manna, è il pane della vita (cfr Gv 6,32-35) e compiere le opere di Dio è credere in Lui (cfr Gv 6,28-29). Nell’Ultima Cena Gesù riassume tutta la sua esistenza in un gesto che si inscrive nella grande benedizione pasquale a Dio, gesto che Egli vive da Figlio come rendimento di grazie al Padre per il suo immenso amore. Gesù spezza il pane e lo condivide, ma con una profondità nuova, perché Egli dona se stesso. Prende il calice e lo condivide perché tutti ne possano bere, ma con questo gesto Egli dona la “nuova alleanza nel suo sangue”, dona se stesso. Gesù anticipa l’atto di amore supremo, in obbedienza alla volontà del Padre: il sacrificio della Croce. La vita gli sarà tolta sulla Croce, ma già ora Egli la offre da se stesso. Così la morte di Cristo non è ridotta ad un’esecuzione violenta, ma è trasformata da Lui in un libero atto d’amore, in un atto di auto-donazione, che attraversa vittoriosamente la stessa morte e ribadisce la bontà della creazione uscita dalle mani di Dio, umiliata dal peccato e finalmente redenta. Questo immenso dono è a noi accessibile nel Sacramento dell’Eucaristia: Dio si dona a noi, per aprire la nostra esistenza a Lui, per coinvolgerla nel mistero di amore della Croce, per renderla partecipe del mistero eterno da cui proveniamo e per anticipare la nuova condizione della vita piena in Dio, in attesa della quale viviamo.
Ma che cosa comporta per la nostra vita quotidiana questo partire dall’Eucaristia per riaffermare il primato di Dio? La comunione eucaristica, cari amici, ci strappa dal nostro individualismo, ci comunica lo spirito del Cristo morto e risorto, ci conforma a Lui; ci unisce intimamente ai fratelli in quel mistero di comunione che è la Chiesa, dove l’unico Pane fa dei molti un solo corpo (cfr 1 Cor 10,17), realizzando la preghiera della comunità cristiana delle origini riportata nel libro della Didaché: “Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa sola, così la tua Chiesa dai confini della terra venga radunata nel tuo Regno” (IX, 4). L’Eucaristia sostiene e trasforma l’intera vita quotidiana. Come ricordavo nella mia prima Enciclica, “nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri”, per cui “un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata” (Deus caritas est, 14).
La bimillenaria storia della Chiesa è costellata di santi e sante, la cui esistenza è segno eloquente di come proprio dalla comunione con il Signore, dall’Eucaristia nasca una nuova e intensa assunzione di responsabilità a tutti i livelli della vita comunitaria, nasca quindi uno sviluppo sociale positivo, che ha al centro la persona, specie quella povera, malata o disagiata. Nutrirsi di Cristo è la via per non restare estranei o indifferenti alle sorti dei fratelli, ma entrare nella stessa logica di amore e di dono del sacrificio della Croce; chi sa inginocchiarsi davanti all’Eucaristia, chi riceve il corpo del Signore non può non essere attento, nella trama ordinaria dei giorni, alle situazioni indegne dell’uomo, e sa piegarsi in prima persona sul bisognoso, sa spezzare il proprio pane con l’affamato, condividere l’acqua con l’assetato, rivestire chi è nudo, visitare l’ammalato e il carcerato (cfr Mt 25,34-36). In ogni persona saprà vedere quello stesso Signore che non ha esitato a dare tutto se stesso per noi e per la nostra salvezza. Una spiritualità eucaristica, allora, è vero antidoto all’individualismo e all’egoismo che spesso caratterizzano la vita quotidiana, porta alla riscoperta della gratuità, della centralità delle relazioni, a partire dalla famiglia, con particolare attenzione a lenire le ferite di quelle disgregate. Una spiritualità eucaristica è anima di una comunità ecclesiale che supera divisioni e contrapposizioni e valorizza le diversità di carismi e ministeri ponendoli a servizio dell’unità della Chiesa, della sua vitalità e della sua missione. Una spiritualità eucaristica è via per restituire dignità ai giorni dell’uomo e quindi al suo lavoro, nella ricerca della sua conciliazione con i tempi della festa e della famiglia e nell’impegno a superare l’incertezza del precariato e il problema della disoccupazione. Una spiritualità eucaristica ci aiuterà anche ad accostare le diverse forme di fragilità umana consapevoli che esse non offuscano il valore della persona, ma richiedono prossimità, accoglienza e aiuto. Dal Pane della vita trarrà vigore una rinnovata capacità educativa, attenta a testimoniare i valori fondamentali dell’esistenza, del sapere, del patrimonio spirituale e culturale; la sua vitalità ci farà abitare la città degli uomini con la disponibilità a spenderci nell’orizzonte del bene comune per la costruzione di una società più equa e fraterna.
Cari amici, ripartiamo da questa terra marchigiana con la forza dell’Eucaristia in una costante osmosi tra il mistero che celebriamo e gli ambiti del nostro quotidiano. Non c’è nulla di autenticamente umano che non trovi nell’Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza: la vita quotidiana diventi dunque luogo del culto spirituale, per vivere in tutte le circostanze il primato di Dio, all’interno del rapporto con Cristo e come offerta al Padre (cfr Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 71). Sì, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4): noi viviamo dell’obbedienza a questa parola, che è pane vivo, fino a consegnarci, come Pietro, con l’intelligenza dell’amore: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69).
Come la Vergine Maria, diventiamo anche noi “grembo” disponibile ad offrire Gesù all’uomo del nostro tempo, risvegliando il desiderio profondo di quella salvezza che viene soltanto da Lui. Buon cammino, con Cristo Pane di vita, a tutta la Chiesa che è in Italia!
Amen.